In prima persona

Violenza ostetrica, l’esperienza di Giulia: “Dopo la nascita di mia figlia psicologicamente distrutta dal trattamento ricevuto in ospedale”

Compagna di uno dei sopravvissuti del Ponte Morandi, "Mi hanno trattato bene solo dopo aver letto chi ero sui giornali, il senso di abbandono e pericolo per la mia salute che ho respirato in quei giorni non lo dimenticherò mai"

Generico gennaio 2023

Genova. “Il senso di abbandono e di pericolo per la mia salute che ho respirato in quei giorni non lo dimenticherò mai perché sentirsi non protetti in ospedale è già di per se un triste controsenso. Spero che ciò che è successo a Roma accenda gli animi e l’attenzione di chi ha i reali strumenti per fare qualcosa. Io da mamma voglio contribuire in qualche modo e raccontando la mia storia spero di farlo. Basta subire violenze ospedaliere, basta stare in silenzio“.

Sono le parole di Giulia Organo, genovese, giovane mamma di due bambini, lavoratrice, e compagna di Gianluca Ardini, il cui nome è noto per essere uno dei sopravvissuti alla tragedia del Ponte Morandi. Il primogenito di Giulia e Gianluca è venuto alla luce un mese dopo quel 14 agosto 2018. Nel 2021 la coppia ha avuto una seconda bimba, Anna. “Da questo ultimo parto sono uscita distrutta, in particolar modo psicologicamente, perché in quei giorni si è ancora più fragili“, ha scritto in un lungo post pubblicato sui social per raccontare la propria esperienza.

Giulia Organo non esplicita quale sia l’ospedale dove Anna è nata – d’altronde non è forse neppure questo il punto – ma gli episodi che condivide con la sua cerchia social (il post non è pubblico, visibile solo agli “amici”) sono raggelanti ma, soprattutto, a giudicare dai commenti e dalle condivisioni, non così eccezionali. In tante, in quelli che avrebbero dovuto essere i giorni più lieti, si sono scontrate con un ambiente ospedaliero ostile e poco rassicurante.

Da alcuni giorni il tema dell’assistenza alle donne prima, durante e dopo il parto, da parte delle strutture e del personale degli ospedali è diventato di assoluta attualità per via della tragedia avvenuta al Pertini di Roma dove una donna, addormentandosi mentre allattava il suo piccolo, lo ha fatto soffocare e ucciso. La vicenda ha scatenato polemiche su diverse questioni, da quella dell’abbandono delle puerpere a quella della pratica del rooming in (che prevede che il bambino venga affidato subito alla madre nella stanza di ospedale) fino ai divieti o limitazioni di accesso in ospedale da parte dei padri, o in genere delle figure dei caregiver, a causa delle precauzioni Covid, ma non solo.

Giulia Organo racconta per filo e per segno la sua degenza: “Nasce Anna, secondogenita: “beh dai, per il secondo è tutto più facile.” e con questa flebile convinzione mi avvio in sala operatoria. Cesareo programmato, operazione da manuale nonostante il chirurgo parlasse alla sua specializzanda del mio utero come se io non ci fossi, ma dettegli. Saletta di osservazione post operatoria, chiedo di parlare ad un ostetrica per iniziare e provare almeno stavolta l’allattamento (visto che con il primo non era andata) con una consapevolezza diversa con dei consigli efficaci visto che per me provare ad allattare è stata una tortura. “beh allora attaccala… Ok così. Fa male?” “No” “Ok allora a posto.” Fine supporto allattamento. Capezzoli disintegrati nelle successive ore, consigli su come attaccare la bambina ricevute da un infermiere uomo… Che tipo io continuavo a pensare “ma mi prendi per il culo o fai sul serio???” Risultato: ennesimo allattamento saltato ma stavolta però andate tutti a cagare! non fa per me, sto male fisicamente e questa volta lo capisco e lo decido io perché se aspettavo un supporto ero ancora li con i capezzoli sbrindellati a sentirmi dire cagate. Passiamo alla degenza…

Il racconto prosegue: “Gianluca lo vedevo 40 minuti al giorno e basta. Sola come un cane. La mia camera aveva un bagno da terzo mondo e dei letti degli anni 70, ma ora passerei a citare le meravigliose infermiere, che avrò visto 4 volte in 3 giorni, che in sequenza mi hanno: medicato facendomi saltare un punto perché non mi sorreggevano e sgridandomi perché “Ma cosa fai? Tieni gli addominali?”… “Eh boh, se non mi tenete voi!”. Secondo round, minestrina della prima sera, io con catetere e flebo, inserviente che entra tipo ninja e mi lascia il brodo bollente sul comodino e fugge via, comodino che ovviamente era troppo distante. Suono ad un campanello probabilmente posticcio. Risultato: mi da da mangiare la mia vicina di letto che non aveva fatto il cesareo“.

Non è finita: “Terzo round tolgono il catetere. “Ma non ti eri ancora alzata?”, “Ma perché potevo??”, “Ma certo eh”, “Non lo sapevo non ho visto praticamente nessuno ieri”. Poi, e qui sale il vomito definitivo, esce un articolo sul giornale di Genova “È nata la seconda figlia del ragazzo del ponte” e magicamente c’era un fantastico via vai di gente in camera mia! Tanti infermieri mai visiti e un paio di dottori anche di altri reparti e pensate un po’… Quella sera ho vinto pure un Toradol che nei giorni prima era solo un miraggio lontano perché “No, hai già il paracetamolo”. L’unica nota positiva? Per il cesareo e la scelta di non allattare la bambina me la prendevano la sera (con un po’ di scazzo) e l’ultima sera l’ho dovuta portare io al nido perché “Beh, ora non hai più il catetere fai due passi che ti fa bene”. Per concludere, questo è sia uno sfogo personale che una testimonianza della situazione ospedaliera agghiacciante che c’è oggi in Italia“.

Giulia Organo conclude con amarezza: “So che non è colpa di chi ci lavora ma… L’empatia cari operatori sanitari, ve lo ricordate cos’è? Dovreste rivedere le priorità del lavoro che avete scelto di fare. Da questo ultimo parto ne sono uscita distrutta in particolar modo psicologicamente perché in quei giorni si è ancora più fragili e non si ha quasi mai il piglio di reagire a modo ma… Dobbiamo iniziare“.

Sotto al racconto su Facebook di Giulia Organo, condiviso da diverse mamme, tanti messaggi in cui si raccontano situazioni simili o anche più pesanti della sua. Un tema, quello della “violenza ospedaliera”, e della “violenza ostetrica” in particolare, difficile da affrontare – quasi un tabù – per il rischio di generalizzare e mettere in cattiva luce il lavoro di tanti operatori sanitari che con passione, professionalità e abnegazione assistono il prossimo.

Intanto negli ultimi giorni qualcosa sembra essersi sbloccato a livello di organizzazione nei reparti. Ospedali genovesi come il Galliera, l’Evangelico e il Villa Scassi, con modalità diverse, hanno iniziato a consentire nuovamente l’accesso dei caregiver.

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