Genova. Un pugno nello stomaco dato con leggerezza. Il debutto in prima nazionale al Teatro della Tosse di “Se mia madre mi facesse a pezzi nessuno verrebbe a cercarmi“, possiamo riassumerlo così, ma è molto altro. Intanto consigliamo di non perderlo stasera (unica replica alle 20.30). La produzione è di Narramondo Teatro e Teatro della Tosse, con il sostegno del Conseil des arts du Canada/Canada Council for the Arts dell’Ambasciata del Canada a Roma, dell’Università di Genova e del dipartimento di Lingue e culture moderne, che ha contribuito alla traduzione di questo testo tratto dal romanzo “Et au pire on se mariera” di Sophie Bienvenu. L’adattamento e la regia sono di Elena Dragonetti.
Non possiamo raccontare troppo per non spoilerare la trama e il finale, trattandosi di una storia (tragica) che si rivela a poco a poco, attraverso però un linguaggio giovanile e colloquiale, mai pesante, in cui si moltiplicano i “boh”, i “cazzo”, i “fidati”, in cui il punto di forza sono proprio le frasi che spiazzano lo spettatore, in contrasto con ciò che la protagonista sta raccontando, senza quasi rendersi conto della drammaticità di ciò che ha vissuto e sta vivendo.
Si entra in sala e si nota subito una scrivania, posizionata dietro alle poltrone della platea, accoglierà una persona, una donna, che si siede a inizio spettacolo e sarà interlocutrice muta dell’unica vera protagonista: Aïcha, 13 anni (intuiamo che è giovane, ma l’età si scoprirà più avanti), che vive con la madre e racconta, a poco a poco, tra bugie, numerose versioni dei fatti e dure verità, la sua vita da adolescente cresciuta troppo in fretta a causa di un passato che riemerge.
La ragazzina detesta sua madre, perché ha cacciato di casa il compagno, che non è suo padre, con cui da bambina trascorreva ore davanti alla tv a guardare i film come Scarface. Un rapporto particolare, scopriremo, ma di cui Aïcha ha molta nostalgia e si capisce per chi parteggi: “è davvero uno schifo che qualcuno ti urli contro per quanto sei felice”.
La questione è più complessa e vi suggeriamo di stare attenti ad alcune frasi rivelatrici piazzate durante il monologo, per capire come stiano realmente le cose.
Emerge un disperato bisogno di attenzione e soprattutto d’amore di questa giovanissima, sullo sfondo di una periferia di Montreal in cui le sue due uniche amiche sono due prostitute, fino all’incontro con Baz, che suona la chitarra e ha più del doppio dei suoi anni, di cui Aïcha si innamora.
Una storia d’amore impossibile, vista la giovane età della ragazzina e che sarà il filo rosso della vicenda, rivelatore del motivo per cui Aïcha si trova in quel luogo indefinito: una stanza scarna, in cui gli unici elementi scenografici sono tre sedie di legno. L’altra metà del palco è divisa in due, separata da un velatino, in cui l’attrice si muove quando rievoca parti del suo passato: un divano rosso per gli interni, un tappeto di sassolini di plastica per l’esterno.
Tra sogni (infranti) e una schiettezza mista a un candore quasi infantile, lo spettacolo scorre via bene, nonostante affronti tematiche anche difficili da digerire, proprio grazie al racconto fluido e a tratti divertente del punto di vista della giovane protagonista, di cui diventa quasi impossibile fidarsi proprio per le varie versioni dei fatti che fornirà durante la sua esposizione, come se avesse bisogno di conquistare l’attenzione anche dello spettatore.
Proprio la giovane e credibilissima Marta Prunotto, che regge alla grande l’ora e mezza da sola sul palco, è uno dei motivi per andare a vedere questo spettacolo. La scelta di optare per un’attrice non professionista (ma con un po’ di formazione, visto che proviene dalla Quinta Praticabile e dalla stessa fucina di corsi della Tosse) tra i 16 e i 20 anni, è stata davvero vincente. Pochissime esitazioni, una favella chiara, ritmo alto e una tenuta del palco notevole, ben guidata dalla regia di Elena Dragonetti.
Non abbiamo letto l’originale, per cui non possiamo giudicare la traduzione del testo di Sonia Fenoglio e Anna Giaufret.
Forse l’unico aspetto che stona è la volontà di non far usare il congiuntivo alla protagonista, che ha in testa tutto tranne che la scuola, ma l’equivalenza periferia degradata=incapacità di parlare correttamente, è uno stereotipo di cui potremmo fare forse a meno.