L’esistenza travagliata e l’epopea artistica di un mito del jazz. “Spero che non vengano soltanto per la curiosità di vedere un relitto del passato”. Così parlava di sé Chet Baker, ormai alla fine della sua carriera. Sdentato, provato dalla vita, Chet era una leggenda del jazz ma aveva affrontato l’inferno.
Chesney «Chet» Baker è una maschera tragica, forse l’anti-eroe per eccellenza di un dramma assurdo eppure comune. Aveva scoperto il jazz in California, dove la sua famiglia si era stabilita proveniente dall’Oklahoma. Studiò musica, aveva iniziato con il trombone, presto abbandonato per passare alla tromba: a sedici anni era già pronto per la banda dell’Esercito degli Stati Uniti di stanza a Berlino. Poi, a Los Angeles, il successo, a fianco di Jerry Mullingan, e la carriera solista.
Nel 1955 torna a Parigi e inizia l’inferno: Chet Baker si abbandona alla droga. Sarà un’odissea, un precipitare nell’abisso della dipendenza, tra arresti, condanne, carcere, tentativi di disintossicazione, espulsioni da vari paesi. In Italia, Baker troverà un ambiente accogliente, amicizie, nuovi amori. Sembra potercela fare, ma a tradirlo sarà un incidente banale: a Napoli gli viene rubata la tromba, prima di un concerto, ed è tale lo sconforto che subito Chet torna al suo vizio oscuro. Ed è un ricadere giù per la china, sempre più velocemente, sempre più perdutamente.
La sua vita, la sua musica, sono rimaste nell’immaginario e nella memoria collettiva. Chet è diventato un mito. Da qui sono partiti il regista Leo Muscato e il trombettista e compositore Paolo Fresu – tra i nostri jazzisti più apprezzati al mondo – per raccontare l’epopea umana e musicale del trombettista. Per dare voce, finalmente, a Chet Baker.