Genova. Il dubbio sulla presenza di una cavità in sommità dell’antenna della pila 9, come era già accaduto sulla pila 10 e sulla pila 11 del ponte Morandi, era stato evidenziato nel febbraio del 2011 in una mail inviata dall’allora responsabile del primo tronco di Aspi, Massimo Meliani, al responsabile Collaudi e controlli non distruttivi di Spea, Maurizio Ceneri. Come noto, la scoperta casuale, durante alcuni lavori di manutenzione, di un’enorme cavità sull’antenna della pila 11 aveva portato negli anni Novanta agli interventi di rinforzo di tutta la pila con la posa dei cavi esterni, e alcuni interventi di messa in sicurezza avevano riguardato la pila 10. Non così sulla 9, quella crollata il 14 agosto 2018.
Eppure, sostengono i periti Massimo Losa, Renzo Valentini e Giampaolo Rosati – sentiti questa mattina in aula alla ripresa del processo dopo il deposito dell’integrazione di perizia sulle cause – qualche dubbio doveva sorgere. Il dubbio cioè che problemi simili in fase di costruzione potessero essere sorti su tutti e tre gli stralli ‘gemelli’.
E proprio dalla perizia emerge che, in una mail di sette anni precedente al crollo, la questione era stata sollevata. La mail è datata 28 febbraio 2011. Meliani chiede a Ceneri un parere su una sperimentazione che vorrebbe utilizzare “in vista dell’ispezione ravvicinata sugli stralli che abbiamo programmato di ripetere questa estate”. L’idea è quella di utilizzare il “georadar” con uno scopo preciso, vale a dire “evidenziare eventuali cavità nascoste nel getto, non superficiali, come credo fosse quella trovata a suo tempo sullo strallo di pila 11 e quindi non riscontrabili con battute di martello”.
Una preoccupazione evidente, tanto che Meliani, allegando alla mail un articolo sull’uso del georadar, spiega che lo strumento ha “anche altre finalità”, ma – dice Meliani – “credo che potremmo essere già soddisfatti se riuscissimo ad escludere vuoti all’interno della guaina in calcestruzzo”.
Di quella proposta tuttavia non se ne fece nulla, ma quel che emerge è che la preoccupazione c’era eccome. Eppure, sostiene anche la perizia, non si fecero i controlli che avrebbero potuto accertare quello che veniva solo “sospettato”.
In udienza la nuova perizia sulle cause del crollo
Oggi in udienza i tre periti hanno illustrato la prima parte del documento consegnato ai giudici, che avevano chiesto un’integrazione della perizia sulle cause del crollo fatta nel corso dell’incidente probatorio, visto che i consulenti degli imputati, nel corso del processo, hanno fatto emergere con più chiarezza come sulla sommità della pila 9 ci fosse un vizio di costruzione.
La tesi delle difese è che si trattasse di un vizio occulto, non visibile dall’esterno, che avrebbe portato a una corrosione del tutto ‘endogena’, che i controlli non potevano scoprire.
Ma la perizia dice l’esatto contrario, vale a dire che i controlli, se fossero stati fatti con ispezioni visive dirette, avrebbero potuto far emergere quelle anomalie. Così si sarebbe potuto intervenire, evitando la strage.
In particolare, nel rispondere ai quattro quesiti formulati dal presidente del collegio Paolo Lepri e dai giudici a latere Ferdinando Baldini e Fulvio Polidori, i periti hanno chiarito che sarebbe stato “doveroso” per il gestore, cioè Aspi e la sua controllata Spea, procedere a “esami visivi diretti con carotaggi, anche con l’aiuto degli endoscopi, alla sommità dei tiranti di pila 9”.
E in particolare: “Dal momento in cui si è presa coscienza della presenza dei difetti alla sommità delle pile 10 e 11, che hanno determinato la necessità di eseguire un intervento di sostituzione degli stralli per la pila 11 e di rinforzo per la pila 10, era doveroso verificare lo stato dei cavi di precompressione anche alla sommità dei tiranti di pila 9”. Al contrario, “come risulta dalla documentazione agli atti, durante l’intera vita della pila 9, non è mai stata eseguita un’indagine specifica finalizzata alla conoscenza dello stato dei cavi primari e secondari alla sommità dei tiranti e, in particolare, del tirante Genova mare”.
I controlli mai eseguiti che avrebbero evitato la strage
Per i periti, “l’esecuzione di fori con trapano, utilizzando una punta avente diametro pari a 20 mm e passante nei varchi lasciati tra le armature lente e tra i cavi secondari, individuabili eseguendo un primo tratto di carotatura, avrebbe consentito di raggiungere i cavi primari e riscontrare che anch’essi erano sprovvisti di guaina.
All’esito delle anomalie riscontrate, sicuramente quelle relative all’assenza delle guaine su entrambe le tipologie di cavi e alla difformità di posizionamento sia dei cavi secondari sia di quelli principali rispetto alla posizione di progetto, si sarebbe determinata la necessità di approfondire ulteriormente il controllo per cercare di capire le cause dell’anomalia e l’estensione della stessa”.
La corrosione arrivata (anche) dall’esterno
Circa l’ultimo quesito, in cui i giudici hanno chiesto se la corrosione in cima allo strallo fosse “endogena” (quindi tutta interna alla cavità e non visibile, quindi) oppure causata da infiltrazioni esterne di aria o acqua, la risposta è netta: “L’entità del fenomeno corrosivo, in termini quantitativi, non è assolutamente imputabile a meri fattori endogeni. In particolare, la quantità di ossigeno necessaria, vista la mole di acciaio corroso, non poteva essere contenuta nella cavità fin dalla fase di costruzione del ponte. L’ossigeno necessario deve quindi aver avuto origine esogena dall’atmosfera, tenendo anche conto, comunque, che l’ossigeno può, seppure con difficoltà, penetrare attraverso il calcestruzzo” dicono i periti.
E concludono: “Esistono alte probabilità che anche l’acqua necessaria alla corrosione possa essere imputata a un ingresso dall’esterno, essendo le prevedibili quantità di acqua da segregazione e da bleeding comunque esigue. L’assenza di stati di precompressione sul tratto terminale dello strallo e la conseguente presenza di fessure ha quindi favorito sia l’ingresso di acqua che di ossigeno dall’esterno”.