Recensione

Edipo Re, al Teatro Ivo Chiesa: luci, ombre, voci per una versione applauditissima

Una rappresentazione contemporanea, ma fedele nonostante un paio di inserti originali

Genova. Uno dei capisaldi della nostra umanità, che pone un limite a ciò che si può fare e ciò che non si deve fare, ma anche sull’ineluttabilità e l’impossibilità di sfuggire al destino. Edipo Re continua a parlarci a distanza di oltre 2400 anni.

Lo fa, con successo, anche la coproduzione del Teatro Nazionale di Genova con Tpe – Teatro Piemonte Europa, i Nazionali di Napoli e Emilia-Romagna (Ert) e Lac Lugano Arte e Cultura diretta da Andrea De Rosa.

Lo testimonia il lungo applauso di una platea composta prevalentemente da studenti nella replica di venerdì 24 gennaio al Teatro Ivo Chiesa.

La tragedia di Sofocle viene proposta puntando soprattutto sull’intima evoluzione della consapevolezza di Edipo, che a poco a poco capisce di aver ucciso il padre e aver sposato e fatto dei figli con la madre proprio come nella profezia da cui cercava di fuggire e verso cui inconsapevolmente è andato incontro. C’è un momento, quel “Sei tu” che echeggia quando parla Tiresia, quando in teoria ancora Edipo ancora non sa, che segna appunto la lettura di questa rappresentazione più concentrata sulla coscienza di Edipo che vuole a tutti i costi arrivare alla conoscenza di chi è davvero anche se all’inizio non vede quella che è la verità forse da sempre sotto i suoi occhi.

Tiresia e i messaggeri sono interpretati dallo stesso attore (un autorevole Roberto Latini): tutti manifestazione del dio Apollo, a cui Fabrizio Sinisi, il traduttore, ha dedicato un inserto originale che diventa una invocazione-preghiera in cui tutte le sfumature del dio vengono richiamate: non solo solare e aggraziato, ma anche capriccioso, vendicativo, infantile, ambiguo, competitivo, sanguinario.

Una scena caratterizzata da dei pannelli di plastica sostenuti da treppiedi con delle rotelle, con delle strisce orizzontali all’altezza degli occhi degli attori che agiscono parlando in microfoni che amplificano la sofferenza del coro (bravissime con vocalizzi, melodie e salmi in greco Francesca Cutolo e Francesca Della Monica). Le luci di Pasquale Mari sono bianche e dorate, puntate verso il pubblico, per poi spegnersi a poco a poco nel finale, quando Edipo (un intenso Marco Foschi) decide di accecarsi per autopunirsi. Nel buio la luce forte di un neon puntato verso il pubblico è la chiusura, come l’essere accecati, anche noi, dalla troppa luce di ciò che non vogliamo vedere.

Bene anche il resto del cast: Frédérique Loliée è una Giocasta che non accetta i tentativi di Edipo di arrivare alla verità. La sua risata, eccessiva, è l’emblema della stonatura di un rapporto innominabile. Un dualismo amplificato dal suo abito (i costumi sono di Graziella Pepe), con trasparenze e brillantini, che accentua il ruolo di moglie e donna, mentre alcune posture sembrano quasi essere più vicine a una donna effettivamente più anziana e gli abbracci quasi materni.

Fabio Pasquini è un Creonte che diventa quasi compassionevole nell’eseguire ciò che va fatto.

Repliche sino a domenica 26.

La trama: In una città che non vediamo mai, un lamento arriva da lontano. È Tebe martoriata dalla peste. Un gruppo di persone non dorme da giorni. Come salvarsi? A chi rivolgersi per guarire la città che muore? Al centro della scena, al centro della città, al centro del teatro c’è lui, Edipo. Lui, che ha saputo illuminare l’enigma della Sfinge con la luce delle sue parole, si trova ora di fronte alla più difficile delle domande: chi ha ucciso Laio, il vecchio re di Tebe? La risposta che Edipo sta cercando è chiara fin dall’inizio, e tuona in due sole parole “sei tu”. Ma Edipo non può ricevere una verità così grande, non la può vedere. Preferisce guardare da un’altra parte. Sarà la voce di Apollo, il dio nascosto, il dio obliquo, a guidarlo attraverso un’inchiesta in cui l’inquirente si rivelerà essere il colpevole. Presto si capirà che il medico che avrebbe dovuto guarire la città è la malattia. Perché è lui, Edipo, l’assassino e quindi la causa del contagio. La luce della verità è il dono del dio. Ma anche la sua maledizione.

 

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