Genova. Spunta anche un omicidio commissionato dal clan Fiandaca tra le intercettazioni della Dia che hanno portato in carcere l’imprenditore Gabriele Silvano ed altre cinque persone (tra cui Salvatore Lo Piccolo, già condannato per 416bis perché organico al clan Tommaso Natale di Palermo).
A confessarlo – o forse solo a millantare un omicidio mai esistito? – è lo stesso Silvano mentre parla con l’amico tuttofare L.C.. Con il dipendente, che spesso gli fa anche da autista, Silvano si prodiga in racconti per vantare l’amicizia con la famiglia Fiandaca (cosa che fa anche con l’amico poliziotto che in passato sulla famiglia mafiosa svolgeva indagini), ricordando aneddoti di quando andava “a casa di Salvatore a Cornigliano”. ma soprattutto sostenendo di aver fatto parte del ‘gruppo di fuoco’ del clan.
“Per il toto nero… volevano che l’ammazzassi …”
Silvano fa i nomi fra gli altri di Paolo Vitello e Gaetano D’Antona (tutti condannati in via definitiva per 416bis) che “erano diciamoci … fai il termine ‘il braccio armato’ … no … facevano tutti i servizi. Poi parla di un certo Lorenzo, che sembra far parte anche lui del gruppo che “si mette a giocare al Toto nero a Casella… spendendosi il nome dei Fiandaca …”. “L’hanno saputo e c’hanno incaricato di ammazzare … (inc.) … e si sono vendicati” dice Silvano, confessando di fatto di aver fatto parte di un gruppo a cui i Fiandaca avrebbero commissionato un omicidio. “però non ci sono prove che … (inc.) ammazzarlo …” dice l’interlocutore a Silvano che ribadisce: “per il toto nero… volevano che l’ammazzassi …”.
Il toto nero, così come il traffico di droga, le armi e le rapine, come emerso dai maxi processi, erano tra gli interessi principali delle famiglie palermitane trasferitesi a Genova.
Per la Dia queste intercettazioni hanno in primis rappresentato un ulteriore elemento sulla pericolosità di Silvano, difeso dall’avvocato Nicola Scodnik, a cui sono state fra l’altro sequestrate 4 pistole e quasi 600 proiettili e aveva anche minacciato la ex moglie di spararle se avesse venduto una villetta che lui voleva trasformare in un B&B.
Ma è chiaro che queste ‘confessioni’ dovranno essere oggetto di un ulteriore approfondimento investigativo per capire se Silvano abbia solo millantato o se davvero ci sia un omicidio insoluto commesso a Genova o nei dintorni risalente negli anni. Ma quando esattamente? E la vittima sarebbe questo Lorenzo? O un suo parente o congiunto? O si tratta della partecipazione a qualche omicidio che i precedenti processi hanno già collegato con la famiglia Fiandaca?
Il delitto della buca di San Matteo
Ad oggi l’unico tra i delitti collegati al clan Fiandaca e legati al totonero rimasto nei fatti insoluto dopo le assoluzioni in Cassazione è quello di Gaetano Gardini, freddato il 6 ottobre 1990 da due killer con casco integrale che entrarono nel ristorante la Buca di San Matteo e lo crivellarono di colpi. Gardini, ex componente della banda Rossi, era considerato il boss del totonero genovese.
Gli altri omicidi ‘genovesi’ collegati ai Fiandaca
Gli altri principali delitti legali al clan furono quelli di Angelo Stuppia, 36 anni, titolare di un autosalone in val Bormida nel savonese, fu giustiziato a colpi di pistola il 20 novembre 1990 mentre si stava recando a trovare la moglie che aveva dato alla luce un bimbo presso l’ospedale Celesia a Rivarolo, nel ponente cittadino. Un altro pregiudicato originario sempre di Riesi, Juliano Giuliano, 26 anni, fu freddato il 13 ottobre del 1991 a Genova Pra’.
Per questi delitti furono processati e condannati dalla corte d’assise di Genova presieduta da Massimo Cusatti alcuni esponenti del clan mafioso Fiandaca-Emmanuello di Gela legato allo storico boss mafioso di Caltanissetta “Piddu” Madonia, ma alcuni ergastoli furono poi annullati in Cassazione. Tra questi le condanne per l’omicidio di Gardini che resta quindi senza colpevoli almeno stando alla verità giudiziaria.
Un altro omicidio attribuito allo stesso clan mafioso è quello di Luciano Gaglianò, ucciso con sei colpi di pistola il 13 novembre del 1991, mentre era a bordo della sua auto a Bolzaneto, alla periferia di Genova. Ad aprire il fuoco contro di lui furono in due: un proiettile lo raggiunse alla schiena, altri cinque alla testa. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, fatta con l’aiuto del ‘pentito’ Angelo Celona, Gaglianò non aveva pagato una partita di cocaina da mezzo chilo ai Fiandaca-Emmanuello.
In un primo tempo l’omicidio venne attribuito alla ‘ndrangheta, ma gli imputati vennero assolti. Il caso, rimasto per anni insoluto, fu riaperto dalla squadra mobile di Genova, grazie alle dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia, diventati collaboratori di giustizia, tra cui Angelo Celona e Ciro Vara.