Recensione

Roberto Zucco, al Teatro Modena si rilegge la storia del serial killer in un mondo cupo e senza umanità

Uno spettacolo in cui la storia vera di Roberto Succo viene proposta con le atmosfere noir di una tragedia collettiva

Genova. Atmosfere noir, fumo in sala ancor prima di cominciare, una scena tagliata in due quasi sempre, grazie a una porta con tanto di miniparete attorno e al sapiente gioco delle luci di Andrea Gallo. Un sottofondo musicale “scomodo” e costante del Collettivo Angelo Mai che non fa altro che amplificare la cupezza di ciò che va in scena.

Dopo la prima nazionale del 25 ottobre al Romaeuropa Festival, sino al 10 novembre va in scena al Teatro Modena Roberto Zucco, di Bernard-Marie Koltès, diretto da Giorgina Pi (che ha curato anche adattamento, scene e video), nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova (in coproduzione con Teatro Metastasio di Prato e Romaeuropa Festival).

Il testo, postumo, di Koltès (che morì a 41 anni per le complicazioni dell’Aids), è liberamente ispirato alla storia di Roberto Succo, diciannovenne che uccise i genitori e poi, dopo essere evaso dall’ospedale psichiatrico giudiziario approfittando di un permesso, fuggì in Francia dove assassinò altre cinque persone e stuprò alcune donne.

In questo testo, caratterizzato da dialoghi secchi e pochi, ma intensi monologhi (applausi a scena aperta per quello di Alexia Sarantopoulou nei panni della sorella della ragazza a cui Zucco toglie la verginità) Roberto Zucco è il fil rouge attorno a cui si rivela un’umanità violenta, senza speranza, dove è difficile trovare appunto umanità nel senso più alto del termine: una più alta capacità di comprensione in direzione dei concetti di ‘cortesia, benevolenza, generosità’ per citare la Treccani. Zucco compare spesso nella scena, alla disperata ricerca di chissà cosa, ma alla fine a emergere è proprio il “coro” di personaggi che incrociano la sua strada. È una tragedia collettiva in cui la disgrazia si accanisce sui protagonisti. Lo sguardo della regista Giorgina Pi ne resta distante.

A lui, Roberto, (un Valentino Mannias che ha fatto sua la lucida follia ingannatrice di Succo) viene però affidata la frase-manifesto del testo di Koltès: “Gli eroi sono dei criminali. Non c’è eroe i cui abiti non siano inzuppati di sangue”.

Dopo una premessa, romanzata, dedicata all’evasione, assistiamo all’omicidio della madre (nella realtà fu il primo in ordine cronologico) e poi all’incontro tra Roberto e tutta una serie di personaggi di cui non sapremo mai il nome, che affogano o sguazzano nel torbido, dove anche chi dovrebbe rappresentare “il buono” come la sorella, è animata da un odio viscerale contro gli uomini. Una narrazione spezzata in tante parti a comporre un quadro desolante che può dividere il pubblico.

Come si legge nella presentazione ufficiale dello spettacolo “Nella rielaborazione drammaturgica del fatto di cronaca, Roberto Zucco è un personaggio alla ricerca dell’ignoto, sospinto dall’inquietante ansia di voler superare nuove frontiere. Dal mito prende la tensione a spingersi oltre ogni confine, come Icaro cerca di avanzare verso una luce estrema, ma finisce la sua folle corsa verso il sole, svelando le pieghe più profonde e nere dell’animo umano”. E quella luce estrema, gialla, illumina palco e platea dopo un’ora e quarantacinque minuti di buio.

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