Genova. La deroga approvata in Regione per consentire la costruzione dello Skymetro è “comprensibile”, ma comporta “l’assunzione di un rischio con potenziali danni” e per questo “non deve essere usata come un apripista” per allentare le norme di sicurezza. È la posizione di Guido Paliaga, geologo e presidente della sezione ligure della Sigea (società italiana di geologia ambientale), contattato da Genova24 per analizzare il discusso provvedimento che apre la strada – previa valutazione idraulica – alla realizzazione della metropolitana sopraelevata in Valbisagno nonostante il divieto di costruire a meno di 10 metri dagli alvei dei corsi d’acqua.
Paliaga, secondo lei questa deroga è pericolosa?
“In generale non sono favorevole alle deroghe: se una norma prevede certi principi, è giusto che sia rispettata. Le eccezioni dovrebbero essere episodiche e specifiche, altrimenti possono essere un viatico per espandere una serie di criteri meno stringenti a contesti che invece non consentono di mantenere caratteristiche di sufficiente tutela. Abbiamo visto che cosa è successo a Bardonecchia e anche nella nostra regione in passato: se ci si espone in maniera molto marcata il rischio può essere potenzialmente esplosivo. Bisogna avere il giusto timore”.
È il caso dello Skymetro?
“Sugli aspetti legati allo Skymetro il discorso al limite potrebbe essere comprensibile: c’è un problema legato a dove far passare un’infrastruttura molto importante per la città e si risolve con una deroga. Attenzione però a derogare: non vuol dire che ci sia una condizione di sicurezza. Se derogo alla norma, mi assumo un rischio e i potenziali danni. Questo deve essere l’atteggiamento. La deroga non va usata come un eventuale apripista, perché i rischi sono grandi”.
Anche se non verranno costruiti piloni dentro l’alveo del Bisagno, come ha promesso il Comune in attesa di vedere il progetto?
“In alveo sicuramente sarebbero un problema per diverse ragioni. La prima è che si riduce la capacità di trasporto del torrente. In secondo luogo durante una piena passano anche detriti, lavatrici, materassi e altri elementi che troverebbero un potenziale ostacolo. Sull’argine il discorso è un po’ diverso, le strutture non sono esposte direttamente all’azione dell’acqua e non si riduce la capacità di trasporto. Tuttavia, in caso di esondazione, i piloni sulla strada possono comunque fungere da ostacolo e interferire coi materiali trascinati dalla corrente. Anche per questo esiste la norma che vieta di costruire a meno di 10 metri di distanza. Il rischio di danni locali lo considero accettabile, però è comunque un rischio che aumenta. E anche considerando in funzione lo scolmatore, che renderà meno probabili i fenomeni alluvionali, il rischio zero non esiste. A quel punto entra in gioco una valutazione politica costi-benefici”.
Il comitato che si oppone all’opera ha messo in guardia dal rischio di inquinamento della falda acquifera. Considerato che i piloni andranno in profondità per 6 metri, è un timore fondato?
“È un rischio che esiste e che va assolutamente valutato. Quella del Bisagno è una falda ricca che fornisce molta acqua potabile, una risorsa che sarà sempre più importante a causa dei cambiamenti climatici che portano stagioni sempre più secche. Occorre uno studio progettuale ex ante con modellazioni numeriche per capire la geometria della falda, a che profondità si trova e che influenza possono avere le strutture. È chiaro che, se andiamo a perforare lo strato di terreno che isola la falda, si rischia di metterla in comunicazione con la superficie e di inquinarla. È un processo abbastanza complesso e delicato, che richiede indagini adeguate e dati molto precisi”
Tra i provvedimenti controversi in ambito regionale c’è anche il nuovo regolamento che dovrebbe permettere di costruire nelle aree esondabili a minore pericolosità relativa, ora in attesa di approfondimenti prima della definitiva emanazione. La preoccupa?
È come se fosse una generalizzazione della deroga. Faccio questa osservazione: la piovosità si è modificata in ultimi 20 anni, come è stato provato con diversi lavori di ricerca. Gli scenari futuri vedono un aumento dei fattori rischio. In questo contesto, andare a ridurre le zone di criticità a livello di pianificazione non è una scelta prudente. Credo che invece bisognerebbe rendere le persone sempre più consapevoli dei rischi cui siamo soggetti. Anche perché non è che se l’acqua ci arriva solo alla caviglia vuol dire che non abbiamo un problema.
Secondo lei i cambiamenti climatici impongono una revisione dei piani di bacino?
In generale va cambiato l’approccio. Su scala europea è già stato rivisto da tempo il concetto di tempo di ritorno di un evento, i cui limiti sono sempre più evidenti. Durante l’alluvione delle Cinque Terre nel 2011 si sono verificati nel giro di sei ore e mezza tre impulsi di piovosità intensa con tempi di ritorno ogni 200, 100 e 50 anni. E non c’è motivo per cui possa accadere di nuovo. Senza contare che, se dovesse accadere un evento con tempo di ritorno cinquecentennale, sarebbe catastrofico. Sarebbe indispensabile una mappatura totale del territorio che non si limiti a valutare il tempo di ricorrenza, ma consideri l’altezza dell’acqua e la velocità di scorrimento durante le esondazioni. Devo dire che non sono ottimista sulla pianificazione di distretto perché si allontana il centro di controllo del territorio: tra l’entroterra imperiese e la valle del Serchio, ad esempio, le differenze sono enormi. E poi esistono fenomeni come le frane a sviluppo rapido, vedi Bardonecchia ma anche le Cinque Terre, su cui i piani distrettuali sono carenti.