Genova. Uno scambio reciproco di accuse, e un’intercettazione che si trasforma in una confessione. Si fa più chiaro il contesto in cui è maturato l’omicidio di Mohamed Mahmoud Sayed Abdalla, il ragazzo di 19 anni il cui cadavere è stato trovato privo di testa e mani al largo di Santa Margherita Ligure il 24 luglio scorso, grazie anche a nuovo materiale fornito agli inquirenti dall’avvocato di uno dei fermati per il delitto, attualmente in cella.
Un delitto compiuto materialmente, secondo quanto ricostruito sino a oggi, da Mohamed Ali Abdelghani Ali, detto Tito, socio del salone Aly’s Barber Shop di Sestri Ponente, per impedire che il ragazzo andasse a lavorare dalla concorrenza portando via clienti alla barberia. Oltre a Tito, accusato di omicidio volontario aggravato da futili motivi, è stato fermato anche un altro uomo: Abdelwahab Ahmed Gamal Kamel, detto Bob, fratello di Abdelghani Aly, ovvero l’altro “Aly” da cui prende il nome la barberia di via Merano e quella di Chiavari. È stato proprio Abdelghani Aly, partito per l’Egitto il 26 giugno scorso, a fornire all’avvocato del fratello un video in cui una persona riprende Tito parlare al telefono con Aly proprio dell’omicidio di Mohamed: “Sei stato tu, lo hai ucciso e l’hai fatto a pezzi”, dice Aly a Tito pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo mutilato, affermazione cui Tito risponde con un’implicita ammissione: “Non volevo, il coltello non era mio”. Il video è già stato consegnato agli inquirenti, che lo analizzeranno adesso con l’aiuto di traduttori per elaborarne il contenuto.
Che non si sia trattato di omicidio volontario è d’altronde quello che ha sostenuto Tito in fase di interrogatorio, prima del fermo e del trasferimento in cella. Bob, dal canto suo, agli inquirenti ha confermato di essersi “trovato in mezzo” e di avere anche provato a intervenire per dividere i due, ma di non esserci riuscito. E ha detto di avere aiutato Tito a liberarsi del corpo, gettato in mare a Chiavari, per timore che il socio della barberia potesse fare del male a lui o alla sua famiglia in Egitto. Tito, dal canto suo, ha negato di avere ucciso Mahmoud per impedirgli di andare a lavorare alla concorrenza. Al pubblico ministero Daniela Pischetola e ai carabinieri ha detto invece, confusamente, di essersi difeso quando, nel corso di una lite nell’appartamento-dormitorio di via Vado, Mahmoud ha preso un coltello per scagliarsi contro di lui: “Ha perso l’equilibrio ed è caduto sulla lama”.
Una versione che non convince gli inquirenti, e che viene smentita da Bob, anche lui presente nell’appartamento in cui è avvenuto il delitto. Bob, infatti, ha raccontato che Tito si sarebbe infuriato con Mahmoud quando il ragazzo ha ribadito l’intenzione di lasciare la barberia di via Merano e di iniziare a lavorare per la concorrenza, nel salone di Pegli di un connazionale. La lite sarebbe rapidamente degenerata e Tito, sempre secondo quanto sostenuto da Bob, avrebbe accoltellato il ragazzo allo stomaco, al fegato e al cuore, uccidendolo. Poi, sempre secondo il racconto, Tito avrebbe minacciato di morte Bob e i suoi familiari, intimandogli di aiutarlo a liberarsi del cadavere. Che è stato poi portato in taxi, all’interno di una valigia, a Chiavari, mutilato sulla spiaggia e poi gettato in mare.
Le mani sono state trovate nelle ore immediatamente precedenti e successive al rinvenimento del corpo al largo di Santa Margherita Ligure, mentre la testa ancora non si trova. E proprio in queste ore i carabinieri del nucleo Subacquei del comando di Genova la stanno cercando lungo la scogliera della colmata a mare di Chiavari, a ponente della foce dell’ Entella. Sarebbe stato proprio Bob a fornire agli investigatori indicazioni utili per le ricerche, deciso a collaborare e “sconvolto per l’accaduto”, come ha fatto sapere l’avvocato.
Mercoledì intanto è previsto nel carcere di Marassi l’interrogatorio di convalida del fermo di Tito e Bob, davanti al giudice dell’indagine preliminare Milena Catalano, che dovrà poi emettere la misura cautelare a carico degli inquisiti. Per il sostituto procuratore Pischetola l’unica alternativa è il carcere: troppo alto il rischio di fuga e distruzione delle prove per i due, definiti “altamente pericolosi”, complice l’efferatezza del delitto e la decisione di mutilare il cadavere per ritardarne l’identificazione e liberarsene. E se sul delitto Tito sembra avere ammesso la propria responsabilità, non soltanto al telefono con Aly ma anche davanti ai pm – pur sostenendo che si sia trattato di una sorta di improbabile incidente – sulle mutilazioni i due fermati si lanciano accuse, attribuendo la responsabilità all’altro e negando di essersi accaniti sul cadavere.