Recensione

I due Foscari al Carlo Felice, l’interpretazione del Doge di Franco Vassallo vale il prezzo del biglietto

Un'opera minore verdiana che merita comunque di essere riscoperta

Genova. Persino nel libretto il musicologo Enrico Girardi lo dice chiaramente: definire I due Foscari un capolavoro è fare un torto ai capolavori veri, ma solo il finale del Doge, interpretato magistralmente dal baritono Franco Vassallo, merita il prezzo del biglietto. Una performance che il pubblico ha talmente apprezzato da non attendere la fine della musica per scatenarsi nell’applauso.

Ieri, giovedì 6 aprile, la replica con il primo cast dell’opera di Verdi al Teatro Carlo Felice, che resta in cartellone ancora oggi alle 20 e domani, sabato 8 aprile, alle 15.

Un’opera che a livello di trama è piuttosto semplice e in cui Verdi ancora non è al massimo della sua ricerca sull’espressività drammatica, che qui appunto gli riesce sul ruolo del Doge di Venezia Francesco Foscari. Il libretto di Francesco Maria Piave è ispirato all’omonima opera teatrale in versi di Lord Byron.

Nel Palazzo Ducale di Venezia i membri della giunta e del consiglio dei dieci devono decidere se confermare o no l’esilio di Jacopo Foscari, figlio del Doge, rientrato nella città veneta e incolpato dell’omicidio di due parenti di Jacopo Loredano, suo principale accusatore. Lucrezia Contarini, moglie di Jacopo, difende l’innocenza del marito e dà sfogo al suo sdegno contro i nobili veneziani. I senatori invece inneggiano alla giustizia veneziana, che sa anche condannare il figlio di un Doge. Lucrezia chiede al Doge di far annullare la sentenza, ma il Doge risponde che una lettera scritta da Jacopo pare accusarlo e nulla può più fermare la legge veneziana.
Rinchiuso nel carcere, Jacopo Foscari vede il fantasma del Conte di Carmagnola e colpito dal cattivo presagio, sviene. Sopraggiunge Lucrezia per riferirgli del nuovo esilio e poi il padre, i tre pregrano e sperano di potersi ricongiungere in futuro. L’esilio viene confermato dal consiglio, mentre moglie e figli restano a Venezia. 
Il Doge piange la scomparsa dei suoi tre figli e ora l’abbandono del quarto. Sopraggiunge Barbarigo che reca una confessione scritta da un reo, che si accusa degli omicidi addebitati al figlio. Mentre il Doge esulta per la prova d’innocenza, sopraggiunge Lucrezia portando la notizia della morte di Jacopo, deceduto per il gran dolore. I membri del consiglio chiedono al Doge di rinunciare alla carica. Offeso e ferito sente già le campane di San Marco che annunciano il nuovo Doge e Francesco muore di crepacuore.

Dicevamo del Doge, dilaniato tra il dover sottostare alle leggi della Repubblica di Venezia e il suo sentimento di padre. Vassallo fa emergere tutto questo anche con doti attoriali apprezzatissime. Il suo tormento interiore viene nascosto inizialmente dal suo portamento di uomo di governo, per poi emergere sempre di più sino al tragico finale. Vocalmente sicuro, abile nell’emozionare, nel trasmettere con l’aria finale tutto ciò che c’era da trasmettere.

Applausi anche per Angela Meade (Lucrezia) e Fabio Sartori (Jacopo), che hanno privilegiato la potenza vocale all’interpretazione più intima e delicata. Un po’ statici nella gestualità, hanno comunque incontrato l’apprezzamento del pubblico. Di grande presenza scenica e calato perfettamente nel ruolo del cattivo il Loredano di Antonio Di Matteo. Nessuna sbavatura per il Barbarigo di Saverio Fiore, la Pisana di Marta Calcaterra, il Fante di Alberto Angeleri e il servo del Doge Filippo Balestra.

Ovazioni anche per Renato Palumbo, che ha dimostrato ancora una volta di saper esaltare le pagine di Verdi che qui passa da parti molto delicate a momenti di maggiore intensità.

L’allestimento acquisito dalla Fondazione Carlo Felice invece ha suscitato qualche perplessità: è una Venezia seppiata quella che vede lo spettatore, ben diversa dalla bellezza abbacinante che caratterizza gli edifici della Serenissima, con il rosso e il giallo predominanti. La scenografia si compone di pannelli scorrevoli su cui sono proiettate immagini di luoghi simbolici come il Ponte di Rialto o quello dei Sospiri e Palazzo Ducale, ma rimane comunque una dimensione che secondo gli intenti di Alvis Hermanis, il regista e scenografo, resta onirica. Più azzeccata la scelta di riprodurre l’iconografia della pittura veneziana e l’atmosfera degli interni. Molto belli i costumi di Kristine Juràne che a volte, però, annegano un po’ nella scenografia stessa. Le luci di Gleb Filshtinsky rendono invece giustizia ai momenti topici dell’opera, facendo anche brillare i pochissimi elementi sul palco. Colpiscono le espressioni dei diversi leoni di San Marco che esternano la disperazione di Jacopo durante la prigionia.

Le coreografie di Alla Sigalova, eseguite dal balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” Ets, fanno emergere tutta la doppiezza e la subdola apparenza dei Dieci.

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