Genova. “Non siamo fuggiti, prima di uscire dal nostro ufficio per raggiungere l’ambasciata lo abbiamo messo in ordine, perché vogliamo tornare appena possibile, già a luglio abbiamo in programma un’altra carovana di aiuti per il Sudan e senza voler fare per forza i supereroi faremo il possibile per rispettare i piani e raccogliere più materiale possibile”. Stefano Rebora, presidente dell’associazione Music For Peace, ong genovese attiva da oltre 30 anni in ambito internazionale, mette subito le cose in chiaro. Lo fa durante una conferenza stampa organizzata nella variopinta sede dell’associazione, in mezzo all’elicoidale di via Balleydier.
A due giorni dal rocambolesco rientro da Khartoum, dopo aver attraversato la città in balia del conflitto tra l’esercito e i paramilitari, Rebora sottolinea per l’ennesima volta come “la situazione del popolo sudanese sia di fondamentale importanza per l’Europa, è da lì che partono le rotte libiche della migrazione, è quella la vera porta dell’Africa sul Mediterraneo e una situazione di caos in quel punto può generare un’ulteriore rottura degli equilibri”.
Con lui, in missione – in collaborazione con l’Agenzia italiana cooperazione e sviluppo – altri quattro genovesi. Pietro Biondi, project manager. Chiara Gardella, social media manager e studentessa universitaria, alla sua prima esperienza in missione. Valentina Gallo, executive manager Music For Peace e moglie di Stefano Rebora. Athos Rebora, 8 anni, volontario e figlio dei due. “Non dipingeteci come la famiglia del mulino bianco – dicono – ma il fatto che avessimo deciso di portare con noi nostro figlio vi può aiutare a capire quanto la situazione sia mutata in maniera repentina, da quello che era uno scontro sul piano verbale tra il capo militare governativo e il suo ex vice, ora alla guida di un golpe nel golpe”.
In Sudan Music For Peace lascia sei persone di staff, cittadini sudanesi, ma lascia anche le oltre 1000 famiglie con le quali avevano iniziato a lavorare per un progetto di trasferimento di know how di cooperazione internazionale. La ong genovese lascia anche due magazzini carichi di materiale, 1300 pacchi di cibo, medicinali, strumentazioni mediche. “Non sappiamo se i magazzini siano intatti o siano stati saccheggiati”, raccontano i volontari. “Per il resto, ci teniamo in contatto con i nostri collaboratori sperando di poter ripartire con il progetto al più presto”
Pietro Biondi non si era mai trovato in guerra. “E’ stata una situazione surreale ma una delle cose che mi rimarrà è la generosità del popolo sudanese, quando la mattina della partenza siamo rimasti con la batteria a terra, uno sconosciuto ha trascorso un’ora cercando di aiutarci e alla fine ci ha dato la sua batteria”. Un popolo, quello sudanese, “che è purtroppo abituato ad avere l’esercito per strada, che ne ha passate talmente tante che si sta chiedendo se restare o andarsene una volta per tutte, un popolo che nulla c’entra in questo conflitto”.
“Da quando siamo scesi dall’aereo a Ciampino siamo stati al centro dell’attenzione ma la tragedia umana resta in Sudan, la tragedia dei civili che nulla possono, la tragedia addirittura dei ragazzi che fanno parte delle milizie armate, ragazzi di 16 anni – dice Valentina Gallo – la tragedia umana di donne e uomini che anelano a un processo di democratizzazione che gli è negato, la tragedia di un Paese che sta spendendo milioni in armamenti quando potrebbero essere investiti in infrastrutture, sanità, scuole, quello che possiamo fare noi è chiedervi di non spegnere i riflettori su questa che è una guerra a tutti gli effetti”.