Genova. Stanchezza, ansia, depressione, cefalea, in alcuni casi anche disturbi cognitivi come deficit di memoria e difficoltà di concentrazione. Non ci sono solo le difficoltà respiratorie e cardiovascolari tra le conseguenze del Covid a lungo termine sui pazienti che hanno sperimentato la malattia in forma acuta. Secondo uno studio condotto dall’ambulatorio long Covid della clinica neurologica, coordinato da Luana Benedetti e dal Centro per i disturbi cognitivi del policlinico San Martino di Genova, circa il 35% delle persone dimesse dall’ospedale dopo aver affrontato il coronavirus accusa problemi di tipo neurologico e psicologico anche a distanza di tre-quattro mesi dalla guarigione.
“È un fenomeno complesso perché si innescano aspetti a livello cerebrale e psicologico – spiega Andrea Brugnolo, professore associato dell’Università di Genova e dirigente psicologo dell’unità operativa di psicologia clinica e psicoterapia del San Martino diretta da Gabriella Biffa -. Tra le conseguenze a livello cerebrale abbiamo riscontrato in particolare deficit di attenzione e delle funzioni esecutive, specialmente quelle frontali. Le persone arrivano spesso lamentando carenze di memoria. Poi c’è tutto il vissuto dell’esperienza della malattia, per cui l’evento traumatico a volte è riconosciuto come tale e altre volte è mascherato da fatica cronica e problemi cognitivi. Alcuni si concentrano sui sintomi fisici e hanno difficoltà a trattare l’aspetto psicologico”.
Ma quali sono i numeri del fenomeno? “Su circa 180 pazienti coinvolti nello studio del Cdcd nei primi cinque mesi della pandemia – riporta il collega Nicola Girtler – erano una sessantina quelli che sperimentavano forme di long Covid dal punto di vista neurologico. Non tutti avevano problemi di tipo cognitivo (alcuni ad esempio accusavano cefalea e disturbi del sonno) ma in un numero considerevole l’elemento depressivo era presente. E in una parte di questi si riscontrava effettivamente un deficit. La valutazione neuropsicologica avviene utilizzando un test a punteggi: non parliamo di condizioni realmente patologiche, ma comunque di risultati significativamente più bassi rispetto alla norma. In alcune aree cognitive si verificava un calo della prestazione che corrispondeva alla sensazione di non funzionare più come prima. Un nostro paziente, ad esempio, ha dovuto sospendere la sua attività lavorativa perché non riusciva più a concentrarsi”. E questo, secondo gli studiosi, è un fattore che può scatenare a sua volta reazioni depressive al di là della malattia in sé.
Gli studi a livello internazionale hanno confermato che il Covid, in alcuni casi, può dare luogo a conseguenze neurologiche a lungo termine: “Una ricerca abbastanza importante condotta nel Regno Unito evidenzia una riduzione dello spessore della corteccia cerebrale in una parte di questi soggetti – spiega Brugnolo -. Le alterazioni di segnale della sostanza bianca sono almneo in parte reversibili, ma in alcuni casi si nota anche un danneggiamento della sostanza grigia, cioè del neurone. Certamente la malattia può arrivare a modificare la funzionalità del cervello tramite alcune proteine”.
Chi sono i più colpiti? “L’età media delle persone coinvolte nel nostro studio è di 60 anni – aggiunge Girtler -. Tendenzialmente è più probabile un’alterazione degli aspetti cognitivi in età matura e un affaticamento cronico in età più precoce, ma abbiamo visto anche quarantenni con deficit cognitivi”. In alcuni casi anche l’interazione coi vaccini può innescare effetti collaterali: “Qualche studio – prosegue Girtler – mette in evidenza processi infiammatori importanti in soggetti sottoposti sia alla malattia sia alla vaccinazione”.
I tempi di recupero? Diversi mesi, mediamente un anno. Da quanto si è potuto osservare finora, una minoranza dei casi mantiene un’alterazione funzionale anche dopo un anno di follow up. “I pazienti che presentano disturbi di questo tipo vengono trattati con un approccio multidimensionale integrato – ricorda Brugnolo -. Nel follow up abbiamo osservato un recupero integrale delle funzioni cognitive nell’80% dei casi, mentre una minoranza continua a lamentare problemi e in quel caso bisogna capire se si tratta di danni permanenti o reversibili. Negli ultimi mesi, però, non abbiamo più trattato pazienti per aspetti cognitivi e mi vengono in mente almeno tre persone sui cinquant’anni che hanno recuperato al 95% sia sul piano cardiaco sia su quello cognitivo”. E infatti, conferma Girtler, “talvolta alcuni pazienti non si presentano alla valutazione di follow up e questo ci fa supporre che la loro percezione sia migliorata”.
Oggi la “tempesta clinica” del Covid si è placata e di conseguenza si è ridotta anche la casistica di studio. “Ma il virus continua a circolare – osserva Girtler – e tra chi ha contratto la malattia recentemente le percentuali di disturbi cognitivi si mantengono le stesse“. E poi, ricorda il collega Brugnolo, “resta fondamentale l’elemento traumatico: abbiamo testimonianza di diversi pazienti che hanno reticenza a tornare in ospedale per le visite. Ma questo accade anche a chi il Covid non lo ha mai avuto. È l’effetto del lockdown e si manifesta tanto nei pazienti giovani quanto negli anziani”.