Inchieste

Covid, Bassetti: “Se si fosse applicato il piano pandemico lo avremmo gestito diversamente”

I dubbi dell'infettivologo ascoltato alla Camera: "Andavano protetti gli anziani e lasciati liberi i giovani. E i medici dovevano visitare a casa"

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Roma. “Il piano pandemico italiano era fermo al 2006, cioè a 14 anni prima. Tuttavia in quel piano, anche se non aggiornato, c’erano alcune cose che, se fossero state fatte, avrebbero sicuramente permesso di gestire la pandemia in maniera diversa“. Lo ha detto Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, ascoltato ieri dalla commissione Affari sociali della Camera nell’ambito della proposta di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid.

Un lavoro che prosegue in parallelo rispetto all’inchiesta giudiziaria condotta dalla Procura di Bergamo in cui, dopo la chiusura delle indagini preliminari, figurano tra i 19 indagati l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro Roberto Speranza, il presidente lombardo Attilio Fontana, l’allora coordinatore del Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo, il direttore dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e l’ex capo della Protezione civile, Angelo Borrelli. Le accuse contestate a vario titolo sono epidemia colposa aggravata, omicidio colposo, rifiuto d’atti d’ufficio e falsi. “Un’assurdità totale, indegna di un Paese civile“, secondo il presidente ligure Giovanni Toti che ha espresso “piena vicinanza” alle persone coinvolte.

La mancata applicazione del piano influenzale pandemico è uno dei principali punti critici individuati dagli inquirenti: una mancanza che, secondo le accuse rivolte dai comitati che hanno presentato gli esposti, avrebbe comportato una catena di ritardi e omissioni che avrebbero poi determinato la “diffusione incontrollata” del virus.

Ma che cosa prevedeva questo piano pandemico? “Si parlava ovviamente del miglioramento della sorveglianza epidemiologica e virologica, delle misure di attuazione per la gestione dall’infezione, di garantire il trattamento e l’assistenza dei casi, di mettere a punto piani di emergenza per mantenere la funzionalità dei servizi sanitari e degli altri servizi essenziali e un piano di informazione e delle adeguate strategie di comunicazione”. Tutte cose che, se fossero state messe in pratica, ha aggiunto Bassetti, avremmo “per esempio forse potuto capire prima che c’erano dei casi anomali in alcune regione italiane“.

Ci sono poi altri punti critici, sebbene non direttamente coinvolti dall’inchiesta giudiziaria, evidenziati dal medico genovese. “Le persone che andavano protette nella prima fase erano evidentemente i soggetti più fragili, cioè gli anziani e gli immunodepressi. Invece chi ha subito le maggiori restrizioni sono stati i giovani: durante il periodo in cui mi recavo in ospedale, ricordo i ragazzi a casa e gli anziani in giro per andare al supermercato. Sulla chiusura delle scuole avremmo avuto bisogno di regole precise, dettagliate e uniformi per l’intero territorio nazionale – ha aggiunto Bassetti – invece le regioni andavano in ordine sparso. All’inizio del settembre 2020 non c’era un accordo sulla data di riapertura e quando altri Paesi riaprivano le scuole noi abbiamo continuato a tenerle chiuse”.

Altri dubbi dell’infettivologo genovese sulla gestione della prima ondata: “Nella fase iniziale è mancato un protocollo unico per i trattamenti e i medici non visitavano a casa. E questo è stato un problema, perché la malattia colpiva persone a casa. Molto dalla campagna vaccinale italiana – ha proseguito Bassetti – è stato influenzato dalla comunicazione dei mass media a partire dal vaccino AstraZeneca, usato nel mondo ma da noi cannibalizzato”.

E ancora: “Il Comitato tecnico scientifico, istituito il 5 febbraio 2020, in una prima fase vedeva fondamentalmente la presenza di alcuni esperti del ministero. Tale comitato fu rivisto nel marzo del 2021, ma dobbiamo sottolineare una cosa molto importante, cioè come in quel comitato non c’era nessun rappresentante delle società scientifiche attive nel campo della lotta e dello studio delle infezioni. Le prime regioni che affrontarono l’epidemia furono la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna, la Liguria, il Piemonte, il Friuli Venezia Giulia. Nessun medico di quelle regioni è stato incluso in una fase dinamica successiva. Allora la domanda è: perché il Comitato tecnico scientifico venne rivisto unicamente più di un anno dopo?”.

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