Genova. Si è svolta ieri la presentazione del libro “Il maestro di Auschwitz” di Otto B. Kraus, un’iniziativa nell’ambito del vasto e ricco panorama delle celebrazioni genovesi per il Giorno della Memoria. Ma la particolarità e la novità dell’evento di oggi risiedono nell’aver affidato il compito di accompagnare il pubblico alla scoperta del testo a due studentesse genovesi del Liceo linguistico Deledda, entrambe appartenenti alla Consulta provinciale studentesca, organo di rappresentanza degli studenti che raccoglie, a livello provinciale, due rappresentati per istituto superiore. Assieme alle due relatrici il Prof. Marco Martin, del Liceo Classico e Linguistico Colombo.
Lasciare ai giovani il compito di parlare della Shoah, preparando l’evento in accordo e con l’aiuto di esperti e testimoni, è stata la sfida che gli organizzatori, l’Ufficio scolastico regionale con il contributo di Consulta, ANED e Comunità ebraica genovese, hanno voluto lanciare in queste celebrazioni per il Giorno della Memoria, in cui, forse più che in precedenza, si è avvertito il timore di scivolare verso una stanchezza collettiva davanti alla Memoria. La Senatrice Segre, proprio nei giorni scorsi, ha speso, infatti, parole significative in merito al pericolo di un oblio: ”tra qualche anno sulla Shoah – ha detto Segre – ci sarà una riga tra i libri di storia e poi più neanche quella”.
Per questo è fondamentale affidare la Memoria ai giovani, chiedendo loro di divenire non solo i custodi, ma anche i soggetti che dalla conoscenza e dalla riflessione sulla Shoah potranno iniziare a costruire un mondo più giusto e libero. Questa prospettiva oggi appare un’autentica necessità per la società e per il nostro mondo. E per la scuola in particolar modo.
Rendere i giovani più protagonisti, coinvolgendoli nella rielaborazione del passato, innanzitutto come ricchezza della nostra collettività e poi come maestro per un futuro migliore, è decisamente una strada che va intrapresa, con decisione e speranza, come hanno ricordato nei loro interventi le due giovani relatrici.
Il libro “Il maestro di Auschwitz” narra la storia del Blocco 31, dove per un gruppo di bambini e adolescenti ebrei, provenienti dal lager di Theresienstadt, i prigionieri più adulti avevano organizzato una scuola, il teatro e altre attività, con lo scopo di difenderli dall’orrore che li circondava, preservando in quei piccoli la loro specifica umanità. Alla fine, quando i prigionieri, sopravvissuti, stanno per lasciare l’inferno di Auschwitz, uno dei protagonisti del libro, deluso dalla mancata ribellione ai nazisti, chiede polemicamente: “Io non vedo nessuna vittoria”; ma un compagno decisamente risponde: “Non siamo forse vivi? Guardate i bambini, il muro dipinto. Non vedete le poesie, i disegni e le storielle…?” ” Sì. Siamo vivi – gli fa eco un altro di quei generosi maestri – Avremmo potuto perdere e morire qui dentro. Noi e i bambini”.
Al termine del conflitto, il gruppo più numeroso dei sopravvissuti tra i prigionieri di Auschwitz risultava essere stato proprio quello dei maestri di quella piccola, ma fondamentale scuola segreta, creata per amore degli altri, per la protezione di quei piccoli. Essi si erano dedicati ad alleviare le sofferenze dei bambini e questo li aveva tenuti in vita.
Da qui un insegnamento che le giovani relatrici hanno colto pienamente.
“Anche nel buio più grande e intenso, una piccola luce è rimasta accesa. Una luce che alla fine ha portato alla salvezza”. E ancora: “Il maestro di Auschwitz ci offre un meraviglioso spunto riguardo all’animo umano e a come nelle difficoltà esso possa ricevere supporto dall’unione e dalla solidarietà, da cui si genera qualcosa spesso di inimmaginabile”. “Il libro ci insegna anche che i protagonisti, i sopravvissuti, non hanno vissuto con odio verso i carnefici della loro vita. Hanno sofferto anche dopo, sino al giorno della loro morte, ma non hanno trasmesso odio, rabbia e rancore”. Queste le riflessioni di Nicole Suglia.
E così Kristina Kataeva: “Comunità è proprio la parola chiave, perché i bambini sono riusciti a creare una vita insieme, proteggendosi dalle atrocità che erano introno. Possiamo dire che, alla fine, chi si è salvato ha ricevuto ciò di cui aveva bisogno in quel momento: la speranza e la forza di andare avanti di giorno in giorno, non da solo, ma con qualcuno”. E questo per un impegno civile costante, poiché “dobbiamo studiare questa storia e imparare ad avere quel coraggio e a costruire quella speranza che ci servirà più di tutto nella vita per rendere il mondo migliore, più giusto e libero”.