Genova. Simone Scalamandré non è il responsabile materiale dell’omicidio del padre Pasquale, di cui si è fra l’altro sempre assunto la piena responsabilità il fratello maggiore Alessio né ha concorso ‘moralmente’ all’omicidio bensì, dopo aver sferrato qualche pugno all’inizio della colluttazione è rimasto inerme ad osservare quanto stava accadendo e a un certo punto, non sapendo cosa fare è addirittura andato in un altra stanza.
Per questo il suo avvocato Nadia Calafato, nelle 43 pagine di ricorso in appello, chiede che venga assolto. In primo grado la corte d’assise lo ha condannato a 14 anni di reclusione per omicidio in concorso ma applicando per lui l’attenuante del ‘minimo contributo’, attenuante che non ha convinto il pubblico ministero Francesco Cardona che ha presentato ricorso in appello contro il solo Simone.
La Corte di Assise ha individuato nella compresenza di Simone e nelle tracce sugli indumenti dei due fratelli la prova della responsabilità in concorso ma per l’avvocato Calafato “la compresenza di Simone (dallo stesso mai negata, anzi da subito riferita) non è sinonimo di partecipazione al reato” e Simone “ha dichiarato (sempre) di non aver partecipato al ferimento mortale del padre e di non aver utilizzato alcun strumento atto ad offendere, sui quali, tra l’altro, nessuna sua impronta papillare è stata rinvenuta”. Le tracce di sangue sulla maglietta non possono essere interpretate come una partecipazione al delitto visto che il fatto che Simone Scalamandré era presente a ridotta distanza dal punto di produzione degli impatti non è mai stato messo in discussione neppure dallo stesso Simone”.
E poi, se Simone avesse voluto sfuggire alle sue responsabilità avrebbe avuto il tempo e il modo di farlo ricorda Calafato che contesta le conclusioni della corte ‘assise sul fatto che i due fratelli si sarebbero messi ‘d’accordo in questura sulla versione da fornire agli inquirenti: “Simone non aveva tracce riconducibili alla sua partecipazione materiale al reato – scrive nell’appello – Aveva in programma una partita di calcio con una decina di persone che addirittura gli avrebbero potuto fornire un alibi. Invece ammette lealmente di essere stato presente e di essere intervenuto in una fase iniziale in difesa del fratello, riferendo addirittura una circostanza (l’aver sferrato qualche calcio/pugno i cui esiti neppure la consulenza autoptica ha potuto accertare) che avrebbe potuto tacere. Perché avrebbe dovuto autoaccusarsi? Perché non se ne è andato raggiungendo gli amici al campo sportivo? Perché non si disfatto degli indumenti sporchi di sangue?”.