Genova. Non ha colpito il padre mentre era già a terra e l’omicidio, che Alessio Scalamandré ha confessato chiamando lui stesso il Nue quella sera del 10 agosto 2020, è avvenuto dopo una colluttazione in risposta all’aggressione del padre. I colpi mortali sono durati una manciata di secondi, anche se l’utilizzo di un’arma come il matterello li ha resi fatali. Per questo, secondo gli avvocati Luca Rinaldi e Andrea Guido nell’istanza di appello, Alessio non può essere condannato a 21 anni di carcere come stabilito dalla corte di Assise.
Le richieste di riforma della sentenza sono suddivise in otto punti alternativi che vanno dal proscioglimento dell’imputato per incapacità di intendere e di volere al momento dei fatti a una riduzione di pena per la concessione del rito abbreviato qualora venisse concessa la riformulazione del reato in omicidio preterintenzionale.
E ancora, gli avvocati ripropongono alla Corte d’assise d’appello la questione di legittimità costituzionale dell’articolo previsto dal Codice rosso che impedisce che le attenuanti superino l’aggravante della parentela. Sul punto anche il sostituto procuratore Francesco Cardona aveva supportato con una memoria la richiesta della difesa di sottoporre il tema alla Corte.
Nelle oltre cento pagine dell’atto di appello, gli avvocati del maggiore dei fratelli Scalamandré contestano le argomentazioni della corte d’assise a partire da un riassunto dettagliato di tutte gli episodi di minacce anche di morte e violenze psicologiche a cui Laura Di Santo era stata sottoposta prima della sua denuncia, delle intimidazioni del marito nei confronti delle amiche quando la donna era stata portata in una struttura protetta e delle minacce alla madre che Pasquale Scalamandré ripeteva ai figli.
E di come Pasquale, volesse in ogni modo che il figlio modificasse la denuncia nei suoi confronti. Alessio ‘d’altronde, che per anni aveva agito da mediatore e calmando il padre, era messo in mezzo anche dalla madre che dalla Sardegna, “nell’esternare il proprio malessere ad Alessio, non esitava ad invocare l’aiuto dei figli per uscire da quella logorante situazione” scrivono Rinaldi e Guido. In particolare, la donna spingeva i figli “a recarsi dalle Forze dell’Ordine per segnalare gli avvicinamenti del marito alla casa familiare e, comunque, a trovarsi un lavoro che potesse garantire a tutti e tre una nuova sistemazione ed una nuova vita lontano da Genova e dal marito”. Lo stress per Alessio era tale che si era rivolto per un sostegno alla stessa psicologa del centro antiviolenza che si era occupata di inserire la madre nel percorso di protezione. Secondo il consulente di parte Alessio soffriva di un disturbo da stress postraumantico per cui vedeva la sua vita in costante pericolo, ma il giudice non aveva mai concesso una perizia psichiatrica.
Tra gli altri elementi che i difensori ribadiscono è che Alessio non ha colpito il padre nella cosiddetta ‘fase 3’, così definita nella ricostruzione della scena del crimine e poi nel processo, che indica il momento in cui il padre era a terra: “si deve ritenere che Alessio abbia volontariamente desistito dalla propria azione già durante la Fase 2, ovvero mentre il proprio genitore si trovava sul divano”, questo per confermare che il ragazzo non voleva davvero uccidere il padre quando si è reso conto di quel che aveva fatto si è fermato, anche se troppo tardi.
Infine i legali sottolineano come sia errata la ricostruzione fatta dalla corte d’assise secondo cui Alessio e Simone abbiamo cercato di costruirsi una versione di comodo, sia prima dell’arrivo delle forze dell’ordine, sia in questura nel corso degli interrogatori. e spiegano per esempio: “E’ senz’altro pacifico che sia trascorso un rilevante periodo di tempo tra la fine della colluttazione di Alessio col padre e la telefonata al NUE. Ebbene, ma se davvero tale tempo fosse stato impiegato come ritiene la Corte di Assise per alterare lo stato dei luoghi non avrebbe avuto alcun senso aspettare di essere nella sala d’attesa della Questura per concordare una linea difensiva”.
Sull’attesa in casa e sul ruolo di Simone, nonostante per lui, condannato a 14 anni grazie all’attenuante del “contributo minimo” all’omicidio, ci sia un atto d’appello ad hoc presentato dall’avvocato Nadia Calafato, i difensori del fratello Alessio ricordano: “Gli abiti di Simone erano puliti ed è infatti è proprio per tale ragione che lo stesso non era stato arrestato; non vi era alcuna traccia visibile a suo carico; lo stesso non aveva toccato né il mattarello né il cacciavite, così come dimostrato dall’assenza di impronte su tali armi; di li a poco Simone avrebbe dovuto disputare una partita di calcetto e quindi almeno altre nove persone avrebbero potuto confermare il suo alibi. In definitiva, Simone, ove avesse voluto sottrarsi alle proprie responsabilità penali, avrebbe potuto semplicemente andarsene via di casa e disfarsi dei propri abiti atteso che nessun elemento avrebbe potuto collocarlo sulla scena dell’omicidio. Simone non ha inteso percorrere tale comoda via di fuga dalle proprie responsabilità e, davvero lealmente, non soltanto ha riferito la propria presenza sul luogo dei fatti ma ha anche ammesso di essere intervenuto in difesa del fratello colpendo il padre con qualche calcio e pugno, ovvero una circostanza che con ogni probabilità non sarebbe mai emersa”.
I due ragazzi insomma, per i loro avvocati, non hanno mentito su nulla.