Nera-mente

Maria Bonvecchiato, l’avvelenatrice

"Nera-Mente" è la rubrica di Alice: un viaggio tra i fatti oscuri dell'attualità

Generico giugno 2022

La parola veleno deriva dal latino “venenum”,  che in origine indicava “ogni sostanza, soprattutto liquida, capace di cambiare la proprietà naturale di una cosa attraverso la propria forza”. Bastava aggiungere il termine “malum”, cattivo, per precisare che si trattava di qualcosa di pericoloso. Da secoli, il veleno, è stato uno degli strumenti prediletti dalle donne assassine, a cominciare da Lucusta, considerata da molti la prima serial killer della storia.

È Tacito a narrarne le imprese, raccontando come, nel 54 d.C., Agrippina la giovane, madre di Nerone, affidò un incarico a Lucusta: preparare un piatto di funghi avvelenati per suo marito, l’imperatore Claudio.

La donna svolse l’impresa con diligenza, ma venne poi incarcerata per un secondo omicidio. Sarà poi Nerone a salvarla dall’esecuzione: succeduto a Claudio, prelevò Lucusta dal carcere. In cambio la donna avrebbe dovuto eliminare Britannico, figlio di Claudio e suo legittimo erede al trono, in aperto conflitto con Nerone. Britannico morì. Per Lucusta l’immunità fu garantita, finchè il suicidio di Nerone, nel ’68, la lasciò in totale balia dei suoi nemici. L’anno seguente Galba ne decretò la morte.

Secoli e secoli dopo, ecco la storia di un’altra avvelenatrice, celebrata non da Tacito, bensì dalle pagine de “Il corriere della sera”. È il 29 maggio del 1930. Egidio Civardi lavora come cameriere in una pasticceria di Milano. Di solito è un tipo riservato, ma quello che vedrà con i suoi occhi quel giorno è troppo per non essere raccontato.

“La donna che è morta l’ho servita io l’altro ieri con una sua amica. Erano circa le 15. Le due donne si sedettero al tavolino e ordinarono due bibite. La donna morta, in realtà, preferiva un gelato, ma poi l’altra la convinse. Le due donne conversarono per un po’, poi la donna morta si allontanò per un attimo. Fu a quel punto che notai che l’altra signora versò nel bicchiere una sostanza, da una cartina. Ma non mi stupii più di tanto, pensando fosse un digestivo, o del bicarbonato.

Dopo, l’altra signora tornò. Sembrava molto felice, aveva un foglio tra le mani. Le due scrissero per un po’. Dopo circa un’ora si alzarono e pagarono il conto. Fu solo allora che notai che in uno dei bicchieri era rimasto un residuo denso, color chiaro.”

Civardi non può saperlo, ma con questa dichiarazione fatta ai carabinieri ha messo la parola fine alla storia di una bizzarra e micidiale assassina.

Maria Bonvecchiato nasce nel 1900 a Noale, in provincia di Venezia. Il padre era proprietario di un forno, la madre casalinga, tirava su i quattro figli. Della sua infanzia si conosce ben poco, se non che detestava la compagnia dei coetanei e preferiva isolarsi a leggere e giocare.

La svolta nella sua vita arriva al termine della prima Guerra Mondiale. La cugina di Maria, Matilde, vive in Austria e ha sempre sognato visitare l’Italia: le due organizzano così uno scambio. La ospiteranno a Noale per un breve soggiorno e poi lei ricambierà la gentilezza.

Quando è il turno di Maria di varcare le Alpi, il soggiorno, che si preannunciava breve, in realtà non sarà proprio così: a casa di Matilde conosce Franz, decoratore e con sogni d’artista. Sembra nascere un grande amore. In realtà, Maria se ne esce con una strana proposta: la donna non vuole più stare in famiglia e gli chiede di convolare a nozze e girare un po’ il mondo. Dopo un anno avrebbero divorziato (alla donna Franz non interessa più di tanto) ma Maria avrebbe comunque potuto badare al suo futuro e assegnargli un vitalizio, frutto della dote di casa Bonvecchiato.

Franz accetta la sua proposta e, ai primi di marzo del 1925 le nozze vengono celebrate in Italia.

La prima tappa del viaggio di nozze è Milano, dove li attendono alla stazione Centrale le sorelle dello sposo. Pronte ad accoglierli con fiori, baci e abbracci, si ritrovano davanti una scena sconvolgente: Franz è pallidissimo, ha violenti dolori all’addome, una carrozza riesce a stento a portarlo in albergo. Con il passare delle ore le sue condizioni peggiorano, l’uomo riesce a ingurgitare a malapena del brodo, in cui Maria, nonostante le proteste delle sorelle, continua a versare una sostanza amara, sostenendo che fosse un astringente consigliatole da un farmacista. Presto Franz dovrà essere ricoverato, anche se Maria è contraria, sostiene che sia un malessere passeggero.

Alle tredici e trenta del giorno successivo, il 10 marzo del 1925, Franz Grundl muore. Inascoltate le reazioni delle sorelle e di Matilde, che parlano di avvelenamento e omicidio: nella cartella clinica i medici scrivono “mal di gola complicato da reazioni cardiache.”

Passano cinque anni durante i quali non si sa niente della giovane vedova. La ritroviamo a Milano, con un annuncio sul giornale: “Signora trentenne, sola, cerca signorina indipendente per compagnia, viaggio e casa.”

Maria Bonvecchiato incontra così la sua nuova amica, Elisa Merclin: trentatrè anni, da quattro casalinga presso una famiglia di cui non ne può più, considera l’offerta di Maria l’occasione della vita.

La donna le racconta di avere un ingente patrimonio e di essere stanca di vivere con la madre e la sorella: vuole girare i posti più belli del mondo e vorrebbe una dama di compagnia.

Elisa annuncia così le dimissioni dal posto di lavoro precedente. Sotto consiglio di Maria, vuole inoltre stipulare un’assicurazione sulla vita: dovendo vivere insieme, le pare del tutto normale la proposta che ciascuna delle due sottoscrivesse una polizza a favore dell’altra. Pochi giorni dopo, dopo una visita medica, la copertura sarà attiva.

Dopo due settimane, eccole tutte e due sedute al tavolino della pasticceria Samarani, dove vengono servite da Egidio Civardi. Le due parlano del loro primo viaggio, meta la Francia: serve però il passaporto, e per richiederlo ci vuole un foglio con carta bollata, che Elisa corre felice a prendere, mentre Maria le versa nel bicchiere una polverina bianca.

La donna non sta più nella pelle all’idea di visitare la Tour Eiffel e gli Champs-Eliseès, e al ritorno poco le importa se ritrova la sua bevanda disgustosamente amara.

Maria ed Elisa si salutano poco dopo le 17. Mezz’ora più tardi la donna sarà in preda a dolori lancinanti e verrà trasportata in ospedale, e sull’ambulanza che la trasporta continuerà a a ripetere “Mi hanno avvelenata”. Muore alle diciotto del giorno successivo, ma fa in tempo a rivelare i suoi sospetti ed indirizzare la polizia a casa di Maria Bonvecchiato.

L’autopsia parla chiaro: si tratta di intossicazione da metalli pesanti, probabilmente arsenico. Quello che però gli investigatori troveranno a casa di Maria non sarebbe bastato, se non fosse stato per la testimonianza di Civardi.

Il processo si celebrerà tre anni dopo a Milano, nel maggio del 1933. Il procuratore sostiene che la Bonvecchiato sia colpevole degli omicidi di Franz Grlund ed Elisa Merclin, anche se purtroppo non vi è modo di provare la prima accusa.

In ogni caso, la giuria si esprime all’unanimità: che la donna sia condannata alla pena dell’ergastolo. Finisce così la carriera criminale di Maria Bonvecchiato. Maria l’avvelenatrice.

“Nera-mente” è una rubrica in cui si parla di crimini e non solo, scritta da Alice: clicca qui per leggere tutti gli articoli

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