Alla canna del gas

Stop alle centrali e rinnovabili ferme al palo: così la Liguria è finita in deficit energetico

Importiamo il 61,4% dell'energia elettrica consumata e siamo fanalino di coda per produzione da fonti pulite. Legambiente: "Situazione imbarazzante, dobbiamo recuperare"

centrale enel lanterna

Genova. La Liguria è una regione in pieno deficit energetico, costretta a importare la maggior parte dell’energia elettrica di cui ha bisogno, ed è in sostanza la peggiore regione d’Italia nel processo di conversione alle fonti rinnovabili. A certificarlo sono gli ultimi dati disponibili forniti da Terna e dal Gestore dei servizi energetici, società interamente partecipata dal Ministero dell’economia. Dati che dipingono uno scenario ancora più grave alla luce della crisi energetica che l’Italia sta vivendo e che potrebbe assumere proporzioni devastanti a causa del conflitto in Ucraina e della strettissima dipendenza dal gas russo.

I numeri più recenti sono quelli riferiti al 2020: in quell’anno, secondo il report di Terna, la Liguria ha registrato una domanda complessiva di 6.323,4 gigawattora, coperti per il 61,4% da energia prodotta fuori regione (la voce più consistente) e per la parte restante da produzione interna: 30,2% termoelettrico, 3,7% idroelettrico, 1,82% fotovoltaico, 5,1% eolico, 0,72% biomasse. Eppure dieci anni prima il saldo era fortemente positivo: su una produzione di 11.083,6 gigawattora il 39% veniva esportato fuori regione, a fronte di una domanda pressoché invariata.

Che cosa è successo nel frattempo? Semplice: le centrali elettriche a carbone hanno chiuso progressivamente e non sono state rimpiazzate, se non in minima parte, da fonti alternative di energia. La produzione termoelettrica è stata quasi decimata, passando da 14.411 gigawattora nel 2002 a 2.001,9 gigawattora nel 2020. Oggi questo numero è ancora più basso perché nel 2021 è stato spento l’impianto di Vallegrande alla Spezia e sono rimasti solo i gruppi turbogas di Vado Ligure. Le rinnovabili sono cresciute in termini assoluti, ma non abbastanza da colmare il gap: dal 2010 al 2020 l’eolico è passato da 34,8 a 132,2 gigawattora, il fotovoltaico da 10,8 a 116,6. L’idroelettrico è addirittura sceso da 253 a 235,7. Ad oggi la capacità degli impianti di generazione della Liguria è rappresentata all’84,1% dal termoelettrico, al 6,9% dal fotovoltaico, al 5,3% dall’idroelettrico e al 3,8% dall’eolico.

Altri dati significativi sono quelli del monitoraggio Gse degli obiettivi nazionali sulle fonti rinnovabili imposti da un decreto del Mise del 2015 in base a una direttiva europea del 2009 che fissava per l’Italia una quota minima del 17% di consumi finali lordi coperti da energia “pulita” entro il 2020. L’unità di misura adottata sono le migliaia di tonnellate di petrolio equivalenti: la Liguria avrebbe dovuto raggiungere il valore 333 nel 2018 e 412 nel 2020, ma nel 2019 era ancora ferma a 195, lontanissima dal target. In termini assoluti la nostra regione risulta terzultima in Italia per potenza di impianti a fonti rinnovabili a fine 2019 (92,3 megawatt) davanti a Molise (88,1 megawatt) e Puglia (3,7 megawatt).

La Liguria ha addirittura peggiorato le sue performance nel corso degli anni: nel 2012 l’8,4% dei consumi erano coperti da rinnovabili, scesi nel 2019 al 7,7% nonostante l’obiettivo di raggiungere il 14,1% nel 2020. Si tratta del dato peggiore in Italia. “Siamo chiaramente il fanalino di coda – commenta Santo Grammatico, presidente di Legambiente Liguria -. Se facciamo il paragone con regioni simili alla nostra, Abruzzo, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Marche e Molise, siamo quelli che producono meno energia da fonti rinnovabili. Siamo ultimi per produzione da impianti fotovoltaici: rispetto al Friuli Venezia Giulia, che ha un’insolazione minore, abbiamo una capacità 5 volte inferiore, 105 gigawattora contro 562. Lo stesso si osserva al confronto col Molise per l’eolico, 130 gigawattora contro 680. Questo diventa imbarazzante quando c’è la consapevolezza di avere potenziali notevoli che però non vengono sfruttati. Abbiamo solo da recuperare”.

In tutto questo si fa largo l’ipotesi, caldeggiata dalla Camera di commercio di Genova e dal presidente ligure Giovanni Toti ma contemplata anche dal premier Mario Draghi, di riaccendere le centrali a carbone. Non tanto per contenere i costi esorbitanti delle bollette, quanto per scongiurare il blackout e garantire almeno in parte l’approvvigionamento di energia elettrica qualora la Russia decidesse di chiudere i rubinetti verso l’Europa, gli stessi da cui l’Italia attinge il 43% del gas naturale che consuma. In Liguria l’unico impianto che si potrebbe teoricamente riattivare è quello della Spezia, che negli ultimi anni di funzionamento aveva una capacità di 600 megawatt. Ma si dovrebbe anzitutto portare combustibile, visto che le scorte di carbone sono ormai terminate, e poi superare le forti ostilità della comunità locale che si è espressa fermamente contro l’impiego di fonti fossili in quell’area (infatti, nonostante diversi progetti fossero stati proposti, non è mai decollata l’idea di riconvertire l’impianto a gas naturale).

Pensiamo che la riapertura delle centrali a carbone sia dannosa – commenta ancora Grammatico di Legambiente – anche perché l’impatto di questa fonte sulla produzione italiana si era ridotto al 4%. Dovremmo poi aggiungere costi ambientali, sanitari e climatici”. Quale può essere allora una soluzione nel breve termine? “Per quanto siamo contrari a puntare sul gas naturale, anzitutto importare più gas da Libia e Algeria piuttosto che lasciare le persone al freddo. Ma il concetto è che dobbiamo guardare il più possibile all’indipendenza energetica. Bisogna installare ovunque impianti a energie rinnovabili: ci sono tantissimi progetti fermi da anni perché trovano enormi difficoltà burocratiche, serve accelerare. E poi risparmio energetico ed efficientamento delle case. Ma è già passato troppo tempo, siamo stati lentissimi e la situazione dimostra che non possiamo più aspettare”.

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