Isola del Giglio/Savona. Venerdì 13 gennaio 2012, ore 21.45. “Avevamo finito di cenare ed eravamo seduti nel salone a chiacchierare spensierati quando d’improvviso siamo stati spinti su un lato. Era difficile stare in equilibrio mentre la nave si stava inclinando“. Poi il rifugiarsi nelle proprie cabine con il pensiero: “sarà un piccolo problema alla nave che verrà risolto a breve”. E’ questa la scena che si è trovata di fronte una coppia savonese, quel giorno, a bordo della Costa Concordia, durante il loro ultimo giorno di vacanza prima di tornare a casa.
Loro questa esperienza che ha procurato “una ferita ancora aperta” fortunatamente la possono raccontare, ma altre 32 persone invece non lo possono fare. Sono state uccise da quelle stesse acque che fino a pochi istanti prima promettevano divertimento e svago. Quel viaggio si è rivelato fatale.
“QUELL’ESPERIENZA MI CONDIZIONA ANCORA”
“Di quell’episodio ricordo tutto – racconta ai microfoni di IVG.it e Genova24 il testimone savonese – e ancora oggi mi condiziona. Un anno dopo al naufragio ho provato a salire su un battello per vedere dal canale Venezia, ma i primi secondi mi ha sorpreso un groppo in gola. Certo, poi è passato, almeno per me, ma appena ho sentito il rumore del motore la mia mente mi ha riportato a largo dell’isola del Giglio. Mi è successo altre volte che sono salito in altre imbarcazioni, ma forse una crociera ora, dieci anni dopo, proverei a farla. Per mia moglie invece non se ne parla”.
Le grida nei corridoi, alcuni litigi per la foga del momento, il segnale di SOS in codice morse: queste immagini e questi suoni sono rimasti vividi come non fossero solo ricordi. “Fortunatamente io e mia moglie siamo riusciti a salire in tempo sulla scialuppa – aggiunge -. Ci siamo tutti fatti più stretti e poi ci hanno calato in mare. In quel momento ci siamo sentiti un po’ più tranquilli, ma il rumore che faceva il motore di quell’imbarcazione di salvataggio è rimasto impresso, riesco a sentirlo ogni volta che ne parlo”.
“ABBIAMO PERSO MOLTO MA LA NOSTRA VITA E’ IL VALORE PIU’ GRANDE”
Qual è stato il primo pensiero appena arrivati a casa? “Ci è andata davvero bene“, pochi giorni dopo il rientro al lavoro. “Mia moglie ha avuto la febbre molto alta quando siamo rientrati – spiega il marito -. Quando siamo dovuti scendere dalla nave eravamo vestiti molto leggeri, come eravamo in cabina. Prendersi una bronchite era molto facile. Fortunatamente poi i soccorsi ci hanno offerto delle coperte e ci hanno accompagnati in una struttura di suore dove poter dormire. Ma quella sera faceva davvero molto freddo. Il rientro al lavoro invece è stato un’occasione per poter pensare ad altro oltre a quell’incidente di cui tutti parlavano e cercare di andare avanti con la vita di tutti i giorni, in parte ci siamo riusciti”.
“Gli oggetti cari che ci siamo portati dietro in quel viaggio – aggiunge – purtroppo sono andati perduti. Oltre all’abbigliamento e ai gioielli dei più belli che avevamo per un’occasione del genere, anche un piccolo computer dove avevo raccolto una serie di foto dei primi anni 2000, immagini che purtroppo non vedremo mai più”. Poi è arrivato il risarcimento, ma “il disagio psicologico non si può guarire con il denaro” tiene a dire il savonese. Anche a distanza di 10 anni il pensiero resta lo stesso: “Siamo sopravvissuti a questa tragedia, siamo stati fortunati e questo va oltre ogni altra cosa” conclude il testimone di questo fatale “inchino”.