Genova. La questione rimarrà in sordina ancora per qualche giorno visto che le mense aziendali in questo periodo sono quasi tutte chiuse. Ma alla riapertura, che avverrà già a partire dall’ultima settimana di agosto, l’obbligo di chiedere il green pass ai lavoratori precisato ieri sera dal Governo con una Faq online potrebbe non andare giù a tutti e creare situazioni di tensione. Oltre alla preoccupazione per gli addetti dei servizi di ristorazione, che potrebbero subirne le conseguenze in via indiretta.
A Genova i lavoratori coinvolti sono soprattutto quelli del settore metalmeccanico. “Aspettiamo di avere un’interlocuzione un po’ più concreta – spiega Stefano Bonazzi, segretario provinciale della Fiom Cgil -. La nostra posizione è chiara: noi siamo per la scienza e per i vaccini, non c’è discussione, ma per ora il vaccino non è obbligatorio perché nessuno ha fatto una legge. Alla luce di questo noi diciamo che chi entra a lavorare deve poter mangiare. Se si porrà il problema, ci confronteremo nelle varie realtà aziendali”.
I numeri sono importanti. Tutte le fabbriche come l’ex Ilva, Fincantieri, Ansaldo Energia, Leonardo, Hitachi e Wartsila hanno un servizio mensa che in tutti i casi è stato appaltato ad aziende esterne. Le stime sindacali parlano di almeno 6mila dipendenti che dai prossimi giorni non potranno entrare in mensa se non avranno il famoso QR Code da esibire al personale. Come accade per bar e ristoranti, ai quali il decreto ha parificato in tutto e per tutto i servizi di ristorazione sui luoghi di lavoro.
In ogni caso per ora il fronte sindacale sembra piuttosto silente. A Genova non è arrivata l’onda lunga delle proteste della Hanon, nel torinese, dove era stato proclamato uno sciopero poi revocato in seguito al passo indietro dell’azienda. “Noi ci adegueremo alle normative. Se qualche lavoratore per motivi suoi non può o non vuole vaccinarsi vedremo di andare incontro a queste situazioni”, dice Marco Longinotti, delegato della Fim Cisl dello stabilimento genovese di Leonardo.
Come? Ad esempio con l’erogazione di ticket o con la consegna di pasti da asporto per coloro che non avranno il green pass, soluzione già adottata in alcune aziende anche per venire incontro alle esigenze di sicurezza anti-contagio. “Il pacchetto da portare via era già previsto per chi non si sentiva tutelato, ma a questo punto sorge un problema di altro tipo: che senso ha pretendere il certificato per mangiare distanziati e non per lavorare alla stessa scrivania?“, si chiede ancora Longinotti.
Ma non solo. “Dopo qualche giorno di take away il rischio è che i lavoratori poi decidano di portarsi il cibo da casa. A quel punto verranno a mancare i pasti e saranno a rischio i livelli occupazionali dei servizi di ristorazione – avverte Silvia Avanzino, segretaria ligure della Fisascat Cisl -. Le aziende hanno già previsto un aumento dei costi del 15% dovuto alla necessità di fare i controlli all’entrata. Teniamo conto che c’è già stato un aggravio del 30-35% per sostenere i costi di termoscanner, plexiglass, distanziamento, percorsi di entrata e uscita. È una questione che andrebbe concertata meglio”.
Insomma, i dubbi non riguardano solo quei lavoratori che si troveranno esclusi dalle mense (e un modo alternativo per consumare il pranzo magari lo troveranno), ma anche gli addetti che preparano e somministrano i pasti. “Verificheremo alla prova dei fatti come si concretizzerà questa normativa – conclude Bonazzi -. La nostra posizione è che se un lavoratore entra a lavorare deve poter mangiare. Mi auguro che ci sia più chiarezza e mi stupisco che non ci sia stata nessuna interlocuzione su questo tema”.