Genova. I sensori che avrebbero dovuto monitorare il ponte Morandi, il viadotto crollato il 14 agosto 2018 causando la morte di 43 persone, non vennero sistemati “dolosamente” nonostante fossero stati tranciati nel 2015 durante alcuni lavori e caldeggiati dal Cesi nel 2017.
E’ la nuova accusa che emerge dalle carte dell’inchiesta. In particolare, i pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno insieme all’aggiunto Paolo D’Ovidio, hanno contestato anche “la rimozione o l’omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro”. Questa contestazione farà spostare la competenza da un giudice monocratico al collegio.
La nuova ipotesi di reato, inoltre, prevede che nel caso in cui si verificasse un disastro o un infortunio dalle rimozioni od omissioni, la pena è da tre a 10 anni. Anche nella perizia degli esperti del gip sulle cause del crollo, nell’ambito del secondo incidente probatorio, era stato sottolineato come “non era stato dato seguito alle raccomandazioni del Cesi per l’installazione di un sistema di monitoraggio dinamico permanente con l’individuazione di specifici livelli di soglia”.
Quei sensori, secondo la ricostruzione dei finanzieri del primo gruppo coordinati dal colonnello Ivan Bixio, un anno prima della rottura avevano fornito i dati con cui era stato stilato nel 2014 il documento in cui venne scritto che il ponte Morandi era a “rischio crollo”, unico viadotto in tutta Italia a riportare quella dicitura.
Per gli inquirenti, quel documento dimostrerebbe che la società era a conoscenza dei rischi e che non fece nulla. Una circostanza che potrebbe portare alla contestazione del dolo eventuale e non più a una contestazione colposa.