Racconto

Luca, malato di coronavirus a 37 anni: “Dall’ospedale a casa, poi abbandonato a me stesso”

Dimesso dal pronto soccorso dopo quattro ore: "Pensavo fosse una semplice influenza, mai vissuto niente del genere. Nessuno mi ha chiamato per sapere come sto"

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Genova. “Ora sto meglio, so solo che il mio periodo di quarantena termina il 13 aprile. E sono preoccupato per mia moglie e i miei figli”. Ci risponde al telefono con voce tranquilla, perché adesso il peggio è passato, ma a intervalli regolari un lungo e violento colpo di tosse giunge a frammentare il discorso. Luca Benvenuti, 37 anni, genovese, è uno dei tanti contagiati dal coronavirus. Nonostante la giovane età e il passato da calciatore a livello agonistico. All’ospedale ci è arrivato nel momento più critico, ma dopo qualche ora si trovava già a casa.

“Ho iniziato ad avere i primi sintomi il 18 marzo – racconta -. Mi è venuta la febbre fino a 38 e mezzo, poi è arrivata la tosse“. Luca, che lavora in banca a Sturla, si insospettisce da subito: “La settimana prima avevamo saputo di un collega con gli stessi sintomi, risultato positivo. Fino ad allora nessuno di noi pensava di poter essere contagiato o contagioso. Dal 16 marzo la filiale era stata chiusa per la sanificazione, ma io avrei comunque iniziato a lavorare in smart working”.

Temendo di essere stato infettato, “anche perché non avevamo né mascherine né guanti ed eravamo a contatto col pubblico“, Luca chiama il numero del ministero della salute 1500. “Mi hanno rimandato dal medico di famiglia e mi hanno dato solo qualche consiglio: stare a casa, prendere un antipiretico, tenere monitorata la situazione con un saturimetro, che per fortuna tenevo già a casa perché mia madre aveva avuto problemi respiratori”.

La malattia peggiora giorno dopo giorno e il 29 marzo, una domenica, il livello di saturazione del sangue scende sotto la soglia di sicurezza, portandosi a 91. Scatta la chiamata al 112. “Sono venuti a prendermi in ambulanza. E’ stato il momento peggiore, sentivo i miei bambini piangere sul terrazzo”, ricorda Luca.

Giunto al pronto soccorso del San Martino verso mezzogiorno, viene sottoposto a tutte le procedure del caso: anzitutto il tampone, poi prelievi, radiografie, elettrocardiogramma. La diagnosi è quella tipica da Covid-19: polmonite interstiziale bilaterale. “Ma visto che sono giovane e in buona salute mi hanno rimandato a casa, dicendo che mi avrebbero monitorato”. E così alle quattro del pomeriggio è di nuovo tra le mura domestiche.

E qui inizia il lungo periodo di quarantena, isolato dal resto della famiglia. Quel che non torna è, appunto, il monitoraggio. “Da allora nessuno mi ha mai chiamato – denuncia Luca – se non per dirmi che il tampone era risultato positivo”. Né dalla Asl né dall’ospedale. “Nessuno si è sincerato del mio stato di salute, nessuno è venuto a controllare. Vieni lasciato al tuo destino: se ti senti male, sei tu che devi farti vivo. Non mi aspettavo che fosse così”. E al disagio della malattia si aggiunge l’ansia, perché “sappiamo che questa polmonite ha un decorso rapidissimo, quindi potrebbe essere sempre troppo tardi”.

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La preoccupazione si estende naturalmente ai propri cari: “Mia moglie per fortuna è asintomatica. Anche lei è stata messa in isolamento ma non ha mai fatto il tampone, anche se suppongo sia positiva. I bambini stanno bene. Temevo che i miei suoceri si potessero ammalare, ma è da settimane che non ho rapporti con loro”. Adesso, con Lucia e i piccoli Edoardo e Irene di 8 e 5 anni, si vive da separati in casa: “Abitiamo su due piani, quindi riusciamo a mantenere le distanze anche se non è facile, soprattutto negli spazi comuni”, spiega Luca.

Il cammino verso la guarigione è ancora piuttosto lungo. E l’esperienza è di quelle che segnano: “Psicologicamente sono sereno, però non avevo mai vissuto niente del genere. E anch’io, come tanti, sottovalutavo il problema e pensavo che fosse solo una semplice influenza. Certo, adesso ho cambiato idea”.

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