Genova. Ancora una storia di discriminazione “sanitaria” a Genova che vede protagonista una famiglia bergamasca, arrivata in città per trovare le cure al figlio malato, dopo diversi tentativi andati a vuoto.
Una vicenda che inizia mesi fa, ad ottobre, quando dopo diverse tipologie di cura i medici curanti del piccolo Libero, ragazzo di 13 anni di Bergamo, invitano i genitori, Julia e Manuel, a contattare il Gaslini di Genova, per tentare di venire a capo della febbre incessante e del costante indebolimento della salute del piccolo.
Al Gaslini si provano alcune terapie, anche in sospetto ad una eventuale leucemia. Alcune cure sembrano avere una certa efficacia, anche se solo momentanea: la famiglia, quindi, decide di trasferirsi momentaneamente a Genova per seguire meglio la via tracciata dai medici genovesi, prendendo in affitto una casa d’appoggio .
Nel frattempo siamo a febbraio, e il paese intero sta per essere travolto dall’epidemia di Coronavirus, di cui uno dei primi focolai è proprio a Bergamo: “Era il 25 febbraio e quando sono arrivato in ospedale ho chiesto alla portineria se prima di andare in reparto avessi dovuto usare particolari precauzioni o sottopormi a qualche controllo considerando ciò che stava accadendo a Bergamo – riporta il padre Manuel a Bergamonews – Erano le 7.30 e mi hanno chiesto di tornare alle 10.30 perchè avrebbero domandato alla task force che si era creata all’interno della struttura. Così ho fatto e quando sono tornato mi hanno informato che non c’erano particolari restrizioni per chi venisse da Bergamo ma alcune regole da seguire che venivano decise dal reparto stesso. Il giorno seguente la caposala mi ha fatto capire che l’indicazione di rimanere lì oppure no nel mio caso non era un ordine ma la mia coscienza avrebbe dovuto suggerirmi di non presentarmi. Usando ogni precauzione, però, è importante stare assieme, per assistere Libero, dare il cambio a mia moglie e far sì che riesca a vedere anche l’altro figlio”.
Le condizioni di Libero sembrano migliorare, ma la famiglia rimane a Genova, per essere pronti ad un nuovo ricovero che purtroppo arriva puntuale: “Nel frattempo, il proprietario dell’appartamento dove alloggiavamo ha contattato mio marito per riferirgli che la vicina di casa gli aveva chiesto come si fosse permesso di affittarlo a persone di Bergamo, lui le ha risposto che eravamo lì da un po’ di tempo, le ha spiegato che nostro figlio era ricoverato al Gaslini e che eravamo sotto controllo. Lei aveva paura che portassimo in città il virus come le persone che sono scappate nelle seconde case ma non era il nostro caso. E sin dall’inizio siamo sempre stati molto attenti: andavamo a fare la spesa con guanti e mascherina mentre gli altri abitanti ancora non li indossavano. Anche noi, come la famiglia che ha dichiarato di essere stati trattati come untori perchè venivano da Bergamo, abbiamo avuto atteggiamenti ostili nei nostri confronti perchè siamo bergamaschi”.
Un pregiudizio, una mancata solidarietà che colpisce una famiglia ancora una volta in difficoltà: “Noi siamo dovuti tornare ancora a Genova lo scorso 19 aprile per un nuovo peggioramento della salute di Libero – conclude la madre – Abbiamo sempre paura che un giorno i medici scoprano che si tratti di leucemia: con i globuli bianchi bassi e l’infiammazione il rischio c’è ma finora non l’hanno riscontrata. Siamo disperati, lo dico col cuore: non abbiamo idea di cosa fare, aiutateci”. E il primo aiuto sarebbe farli sentire a casa.
(Foto: Bergamonews)