Diario di guerra

Coronavirus, rivelazioni choc dai medici del Villa Scassi: “Costretti a lasciarli morire, è una mattanza” fotogallery

La spaventosa testimonianza di due medici genovesi in primissima linea: "Non ci sono cure per tutti, salviamo solo i più giovani. Non eravamo preparati, questa è una malattia da fantascienza"

Genova. Pazienti lasciati morire nei corridoi del pronto soccorso con polmoniti terribili perché non ci sono abbastanza supporti respiratori per tutti. Cadaveri abbandonati sulle barelle senza dignità e lontani dai parenti. Personale sanitario che si ammala e rientra al lavoro senza aver mai eseguito un tampone. E una lunghissima serie di errori di valutazione in partenza che adesso non sono più recuperabili. Non siamo a Codogno e nemmeno in una qualsiasi trincea della Lombardia epicentro del disastro coronavirus. Siamo a Genova, all’ospedale Villa Scassi di Sampierdarena. Dove “se hai più di settant’anni, o sei fortunato e ti riprendi, oppure probabilmente muori”.

A parlare sono due medici, uno del pronto soccorso e uno della rianimazione. Due medici che, per ora, vogliono mantenere l’anonimato per paura di ritorsioni. Hanno gli occhi stanchi e il fiato corto di chi ha visto la guerra a casa propria. Del resto loro la chiamano così, senza tanti giri di parole: guerra. Combattuta senz’armi e senza aver valutato il potere del nemico, che è subdolo ma preciso nella sua letalità. Quello che potete sentire nel video è il messaggio vocale di un terzo medico che descrive la notte in pronto soccorso tra il 22 e il 23 marzo: “Un disastro, la gente muore a fiotti, non abbiamo più niente. Chi non ha speranza lo lasciamo morire”. È un buon punto da cui partire per questo viaggio all’inferno in cui lasceremo parlare solo i nostri testimoni.

Una malattia mai vista prima: in sei ore si passa dalla vita alla morte. Questo è un paziente fantascientifico che ha un’evoluzione incredibile, che nessuno di noi poteva immaginarsi. Vedi persone che magari giocano col cellulare, e dopo un minuto le intubi. Vedi persone che non stanno così male, ma quando fai un’emogasanalisi – un prelievo che ti dà un’idea della funzionalità respiratoria – hai di fronte valori terrificanti. Ho visto almeno tre persone intubate che poco prima telefonavano a qualcuno. Succede nel giro di sei ore, a volte anche meno, dipende dall’evoluzione della malattia. Questo non è un tipo di paziente che siamo abituati a trattare. È un paziente nuovo, è un tipo di polmonite che non abbiamo mai visto. Può essere paragonata a un’influenza finché va bene. Non tutti finiscono intubati o morti, ma noi in media ne vediamo due gravi ogni giorno. L’unica cosa buona è che ormai è una malattia molto standardizzata. I pazienti sono tutti identici, hanno tutti le stesse anomalie biochimiche, divise in base a fenotipi”. 

Scegliere chi curare e chi lasciar morire. “Prima che il Governo desse il giro di vite sulla zona rossa, le riviere erano piene di turisti da tutte le parti. Il giorno dopo è arrivata una fiumana di gente ammalata. È scoppiato il finimondo. Il 20 marzo noi abbiamo terminato la possibilità di fornire standard di cura minimamente accettabili. Si fa quello che si può. Se hai 70 anni e finisci in ospedale, o sei fortunato e sopravvivi, o altrimenti sei destinato a morire. Punto. I farmaci ci sono, ma il supporto ventilatorio per i pazienti non possiamo più garantirlo. Quando le cure normali non funzionano più, secondo i criteri scientificamente validati, dovresti iniziare le terapie non invasive, con le maschere Boussignac che piagano il viso, oppure col casco, che è più confortevole. Ma noi non abbiamo più i flussimetri, le colonnine che servono a dare aria e ossigeno miscelati, in pratica il carburatore dei caschi. In totale ce ne sono una decina in tutto l’ospedale, a spanne.

Come in guerra: si salva solo chi può ancora combattere. “Racconto un episodio: la notte del 22 in pronto soccorso si trova per miracolo un attacco a muro per la maschera. In accordo con l’anestesista lo abbiamo tolto dalle mani di un collega più giovane che lo stava mettendo a un 91enne. Dobbiamo preservare chi ha più chance di sopravvivenza. Ma se la maschera la metti a una donna di 62 anni, questa non risponde alle cure e c’è un solo posto in terapia intensiva con una di 47 anni ancora più grave, allora chi scegli di intubare? Queste non sono linee guida, è buonsenso, è medicina di guerra. La distribuzione delle risorse è quella che faresti in un campo profughi. Le cure intensive vengono riservate a chi ha la riserva biologica per poter affrontare un trauma. È una terapia violenta, puoi anche morire se non hai la stoffa per resistere a queste cure. Ma noi abbiamo abbassato troppo questa soglia, perché non ci sono più posti. Usiamo respiratori normali da sala operatoria per le postazioni di terapia intensiva. Si vive sistematicamente così. In questo modo i pazienti vengono curati troppo tardi. Più tardivo è l’intervento intensivo, più è difficile la loro gestione”.

Gli errori di valutazione prima della catastrofe. Quando è arrivato il primo caso a Codogno, quello era il momento in cui dovevano chiudere tutto. Capisco che tremassero i polsi a fermare la Lombardia che è il motore d’Italia. Ma fare una zona rossa solo lì è stato da folli. Dovevamo pensare allora a cosa avremmo fatto all’indomani, a organizzare i reparti. Invece è esplosa l’epidemia e per tre giorni è stato il marasma completo. Al pronto soccorso negli stessi locali c’erano tutti senza distinzione, il paziente con l’infarto e quello vicino con la polmonite interstiziale. Poi si sono organizzati i percorsi. A inizio marzo una donna abbastanza giovane, arrivata intorno alle tre del pomeriggio, con valori accettabili, evidenzia polmonite interstiziale bilaterale. Alle dieci di sera il rianimatore scende di corsa e la intuba, allora chiamiamo gli infettivologi e poniamo il problema: facciamo il tampone? Loro rispondono, come sempre in quel periodo: non si può, bisogna rispettare i criteri epidemiologici del ministero. Nello stesso periodo in Emilia Romagna facevano il tampone a tutti i pazienti con polmoniti interstiziali”. 

In prima linea, allo sbaraglio. Le mascherine FFP3 sono finite il 16 marzo, ora abbiamo solo le FFP2. Quando devo fare un tampone metto una visiera e vado in apnea. Al pronto soccorso, da linee guida, si dovrebbero fare 12 ricambi d’aria all’ora, ma noi non abbiamo nemmeno le finestre. Altro che contatto col coronavirus, lì dentro è un brodo di aerosol, in un turno di lavoro te lo prendi di sicuro. Ho fatto trasporti in ambulanza con un camice di tela, sembravo Batman. Quando vedi la gente così hai paura di morire, paura vera e propria allo stato puro. Andiamo avanti grazie alle donazioni dei comitati. Ma perché loro riescono ad acquistare le tute e le protezioni? Perché sono riusciti a trovarle mentre i politici dicono che non ce ne sono? Ci sentiamo presi in giro. E non ce ne frega niente se è un problema di costi”. 

Contagiosi senza saperlo. Il tampone funziona così: se sei un calciatore, la fidanzata di un calciatore o un politico, il tampone te lo fanno e in poche ore hai il risultato da pubblicizzare. Se sei un primario o un membro della direzione sanitaria lo ottieni in un tempo abbastanza celere. Se sei un normale medico o infermiere e ti senti male a casa, ti mandano qualcuno e devi aspettare. Abbiamo colleghi che hanno avuto una polmonite bilaterale documentata a livello radiologico, non hanno mai fatto il tampone e sono tornati a lavorare. Il problema è che, se risultiamo positivi, devono lasciarci a casa. E a quel punto chi va a lavorare? Non c’è più nessuno. Siamo già in pochi. Non tutti i medici poi si prestano a stare in quella mattanza che è il pronto soccorso, ci sono colleghi che non ci hanno mai messo piede”.

La perdita della dignità. “Questi sono pazienti isolati. Il nostro è un castello chiuso. Entri lì dentro e non vedi più un parente. Se muori, muori da solo, sarai cremato e i parenti non potranno assistere. È veramente terribile. Non sono morti, sono sparizioni. Abbiamo telefoni che squillano in continuazione per le chiamate dei parenti che vogliono sapere qualcosa. È pesantissimo anche per noi. Spesso si muore da soli su una barella, nella calca. Ci è capitato di passare davanti ad anziani morti nei corridoi, scomodi, abbandonati. Abbiamo spinto barelle con sopra i morti. Questa è una malattia che cannibalizza gli ospedali e anche le nostre menti. Spesso vai a casa e non te la togli. Ogni volta che sento un’ambulanza mi viene male, mi viene l’ansia, ho attacchi di panico e mi manca il respiro. Che cosa sono secondo voi? Sono tutti pazienti Covid-19 che arrivano, arrivano, arrivano, e vanno tutti da noi in ospedale”.

La denuncia di un sistema da cambiare. “Il malessere di oggi parte da molti decenni fa. Il nostro sistema sanitario nazionale era uno dei migliori al mondo, gratuito e universale per tutti. Quello che sta succedendo ci sta facendo vedere che c’è un cancro nel sistema. Questo è solo il colpo di grazia. Ci siamo sentiti raccontare la favoletta del territorio. La verità è che sono stati tagliati tanti posti letto. Si dovevano tagliare i costi per risparmiare e si è pubblicizzata una ridistribuzione di risorse che non ci sono. Sarebbe stato più onesto dire che il sacrificio dovevamo farlo tutti”.

 

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