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Coronavirus, genovesi in fuga dai ristoranti cinesi: “Noi vittime di razzismo, ora rischiamo di fallire”

A Genova e provincia 678 imprese gestite da cinesi, 129 nel settore della ristorazione: la psicosi ha fatto scappare due clienti su tre

Genova. “Siamo preoccupati. Se andiamo avanti così falliamo“. Silvia ha sempre un sorriso pronto per tutti, anche quando parla delle cose che non vanno. Anche quando racconta degli episodi di razzismo vissuti per la strada. Nata in Cina, ma residente in Italia da quando era adolescente, oggi ha 28 anni e il suo vero nome è Hui Zheng. “Ma preferisco se mi chiamate Silvia”, insiste mentre ci fa accomodare nel ristorante che gestisce in piazza Piccapietra insieme all’amica Mina, sua connazionale.

È dalla quantità di tavoli vuoti nei ristoranti cinesi che si percepisce il primo effetto tangibile dell’allarme globale coronavirus. Un contagio ben più rapido e pervasivo di quello biologico perché alimentato da pregiudizi, paure e informazioni errate che stanno portando migliaia di consumatori a scansare tutto ciò che ha una parvenza asiatica. Anche se il virus non si trasmette attraverso il cibo. Anche se quasi tutti i cinesi residenti in Italia non tornano in patria da anni. Anche se i voli sono tutti bloccati. Le uniche stime ufficiali per ora sono quelle diffuse da Fipa-Ascom a livello nazionale: negli oltre 5mila ristoranti cinesi in Italia si registra un calo di clientela del 70%, che corrisponde a 2 milioni persi ogni giorno.

A Genova e provincia la comunità cinese conta numeri modesti. Nel 2019, dati Istat, risultavano residenti 2.728 cinesi nel capoluogo e 3.293 nella città metropolitana (in Italia sono quasi 300mila, quindi ne ospitiamo appena l’1% del totale). Anche la fotografia delle imprese smentisce il mito dell’invasione a danno dei locali. Guardando all’intero territorio provinciale, le ditte individuali gestite da imprenditori nati in Cina sono 678 di cui 129 nel settore della ristorazione e 296 in quello del commercio al dettaglio. A Genova ci sono circa 100 ristoranti cinesi. A queste cifre mancano le aziende costituite da più soci, ma si tratta di una minoranza poiché la maggior parte sono attività a conduzione familiare.

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Centinaia di piccoli imprenditori che adesso pagano il prezzo della psicosi. “Prima dell’esplosione del coronavirus facevamo 80-100 coperti solo a pranzo, ora ne contiamo 20-30 al giorno“, racconta Silvia, responsabile di un locale che propone cucina cinese e giapponese in una zona piena di uffici,  molto attrattiva per la pausa pranzo dei lavoratori. “Ma io tutte queste persone non le vedo più – assicura -. In pratica abbiamo perso due terzi del lavoro. La gente ha paura del contagio. Prima i clienti iniziavano ad arrivare già a mezzogiorno, appena apriamo il ristorante, all’una c’erano in media 50-60 persone e alla chiusura rimaneva sempre qualcuno. Ora già verso le due il ristorante è deserto. E da mezzogiorno fino all’una non c’è anima viva. Ci sono ancora i clienti abituali che ci conoscono bene, ma sono rimasti in pochi”.

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Poi c’è Daniele Yu Hui, 30 anni, nato a Milano “ma vivo a Genova dal secondo anno di asilo e onestamente non mi hanno trasmesso molto della cultura cinese”, sorride nel suo ristorante in centro storico, a due passi da piazza Matteotti. La madre accoglie i clienti all’ingresso, il padre lavora in cucina insieme ad altri due ragazzi stranieri. Insomma, il più italiano di tutti è lui anche se i lineamenti tradiscono le origini. Anche Daniele la prende con un sorriso: “C’è stato un po’ di calo ma chi ci conosce e lavora qui vicino viene comunque a mangiare”.

Ad esempio Camilla, che ogni settimana, dopo l’intensa giornata di lavoro, non rinuncia alla sua cena orientale. “Tutte le volte che si vuole mangiare qui di solito bisogna prenotare perché è sempre pieno, a pranzo e a cena, e nei fine settimana spesso c’è da aspettare. Invece a quest’ora non c’è ancora gente – osserva sorpresa mentre mancano pochi minuti alle otto di un venerdì -. Io di solito mi sedevo all’ingresso perché tutte le tre sale erano piene. Speriamo che passi e che vedendo persone come me, che frequentano il ristorante e non si ammalano, i genovesi capiscano che non bisogna avere paura”.

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“Ci è venuta la paranoia e la nostra testa si è chiusa”, fa spallucce Daniele, parlando in prima persona come se fosse anche colpa sua. Ma c’è chi non riesce a stare sereno. “Dopo la chiusura della città di Wuhan abbiamo notato una diminuzione non molto visibile i primi due giorni, poi c’è stato un calo drastico e dal terzo-quarto giorno abbiamo visto sparire la gente – prosegue Silvia da piazza Piccapietra -. Abbiamo già dovuto ridurre l’orario di lavoro dei dipendenti. Qui, essendo in gestione, dobbiamo pagare l’affitto, la luce, il gas, tante spese. Siamo preoccupati, se andiamo avanti così falliamo”.

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Alla vetrata affacciata sulla piazza Silvia e Mina hanno affisso un cartello: “Vogliamo precisare che i nostri dipendenti sono residenti stabilmente in Italia e non frequentano il territorio cinese da ormai tanto tempo. Facciamo di prevenzione e controllo la nostra maggiore priorità”. Ma allora perché i clienti fuggono? “È la paura. E l’ignoranza. Non sanno di cosa si tratta – dice la giovane ristoratrice -. Il nostro cibo proviene in gran parte da fornitori italiani, lo acquistiamo da catene presenti anche a Genova. Una parte arriva dai nostri fornitori di Milano ma anche loro seguono le normative italiane. Usiamo anche ingredienti cinesi confezionati, ma devono superare i controlli doganali per essere importati. Non c’è nulla di contagioso”.

Daniele ci fa entrare in cucina e ci mostra gli ingredienti usati per preparare i piatti tipici che propone al suo pubblico: cavolo bianco, insalata iceberg, cipollotti, zucchine, carote, carne, manzo, pollo, pesce. Nulla di diverso rispetto a ciò che si troverebbe in un qualunque ristorante italiano. “Tutto comprato qua. Ci riforniamo da Metro o da piccole ditte, per esempio le costine le prendiamo dalla macelleria qua dietro. Soprattutto perché far arrivare gli ingredienti dalla Cina costerebbe molto di più”.

Purtroppo le note dolenti non si limitano al calo di fatturato. Oggi avere gli occhi a mandorla può essere sconveniente. “Tanti ci evitano, ma se stessimo davvero male non saremmo per strada ma all’ospedale. L’ultima volta che sono stato in Cina c’era il G8 a Genova, poi sono sempre rimasto qui”, ripete Daniele. “Ultimamente abbiamo visto un po’ di razzismo, non tanto qui dentro, ma fuori dal ristorante – racconta invece Silvia -. La mia collega mi ha detto che l’altro giorno mi ha visto passare accanto a un’altra persona. Questa, dopo avermi notato, ha provato a coprirsi la faccia con la sciarpa, poi quando mi sono allontanata se l’è tolta”.

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Nonostante tutto Silvia – all’anagrafe Hui Zheng – sorride ancora. La sua socia, Mina, ha un bimbo nato da poco a Genova. Per anni hanno pensato di costruirsi un futuro qui, adesso il sogno vacilla. “La nostra attività sta subendo tanti danni. Cerchiamo di cavarcela, per ora progetti futuri non ne ho”. Sorride, Silvia, e aspetta che passi il virus. Non quello dei polmoni, ma quello del cervello.

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