Genova. Bene ha fatto il Teatro della Tosse a riproporre “Axto. Oratorio per corpi e voci dal labirinto”, produzione che aveva aperto la stagione 2018 e titolo che fa parte della collaborazione feconda che lega Teatro della Tosse e Balletto Civile, Emanuele Conte e Michela Lucenti, ormai arrivata a quattro titoli dopo a Orfeo Rave, Il Maestro e Margherita, Inferno#5.
Lo spettacolo è andato in scena dal 19 al 22 febbraio, giusto in tempo prima del fermo obbligatorio causa prevenzione coronavirus e ripercorre in modo davvero originale il mito del Minotauro.
Il Minotauro è un mostro per metà uomo e per metà toro, figlio di Minosse, re di Creta, e di Pasifae.
Al trono Minosse era giunto cacciando dall’isola i propri fratelli. Aveva promesso in voto a Poseidone di mandargli un toro dal mare, per dimostrare di essere nel giusto, promettendo in voto che gli avrebbe poi sacrificato l’animale. L’enorme toro bianco era tanto bello che Minosse lo sostituì con un altro, ma la vendetta di Poseidone fu tremenda: indotta da Poseidone (questa la sua maledizione) Pasifae decide di accoppiarsi col toro nascondendosi dentro una vacca di ferro, realizzata da Dedalo. Il dio diede a Minosse e alla moglie Pasifae un figlio mostruoso, Asterione, una creatura con la testa di toro e il corpo di uomo, che si cibava di carne umana, per tutti il Minotauro.
Il re, per nascondere il mostro, chiese a Dedalo di costruire un luogo in cui rinchiudere il Minotauro, da cui non potesse uscire: il labirinto.
Quando Atene fu sconfitta dai cretesi le venne imposto di inviare a Creta, ogni anno, sette fanciulli e sette fanciulle da offrire in pasto al Minotauro. In uno di questi convogli diretti a Creta, Teseo pretese di farne parte per abbattere il mostro.
La principessa Arianna, figlia di Minosse, si innamorò del giovane eroe e, decise che avrebbe aiutato Teseo ad uccidere il fratellastro taurino. Gli diede, su consiglio di Dedalo, un gomitolo di filo magico, fissato un capo all’entrata, srotolò il filo fino al luogo dove si trovava il Minotauro addormentato. Afferrò il mostro per i capelli e lo sacrificò a Poseidone.
La scena, nuda, senza quinte, si presenta con un recinto entro cui agiscono i danzatori, un recinto che è casa (lo si vede dall’arredamento fatto di un frigo, un tavolo, sedie, poltrone e specchi) e che successivamente diventa lo stesso labirinto: un lungo nastro bianco partorito da Pasifae.
Si viene accolti da Lisa Galantini ed Enrico Casale, che al microfono declamano parti della casa di Asterione, racconto tratto dall’Aleph di Borges, inseguendosi in un’eco che si annulla sul finale in cui le voci finalmente si raggiungono e insieme dicono: “So che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere”.
Non è un caso. Sabbia e polvere sono grandi protagonisti della messa in scena, perché i danzatori danno vita a una performance notevolissima muovendosi, a tratti rotolandosi, sulla sabbia.
Una danza sensuale come la bellezza del toro, primordiale come il parto, che si fa più complessa, ma resta sempre molto “fisica” nei passi a due o a tre, utilizzando (ulteriore difficoltà) gli arredi di quella casa-prigione. Una coreografia davvero studiata in ogni dettaglio quella di Michela Lucenti.
Un percorso che fa riflettere sulla natura stessa dell’uomo e quindi della nostra società, sull’emarginazione, sulle prigioni della nostra quotidianità, con un crescendo anche musicale, acuito dai vocalizzi di Lucenti, che nella seconda parte lascia spazio alla sua compagnia che dà vita a Dedalo, Arianna, Teseo, un eroe che però non ha gli atteggiamenti tipici per essere riconosciuto come tale. Suoni cupi e quasi disturbanti quelli che si susseguono durante la performance, sono gli stessi danzatori ad amplificare per esempio lo scorrere di un coltello o un semplice soffio.
Nella lotta finale, con il duello tra Teseo e il Minotauro, si evocano le parole di Julio Cortàzar e il suo “Il Minotauro – nel labirinto”: “Non so nulla di te, Minotauro, non uccido te, ma l’eco delle tue imprese … non è con gli occhi che si vede la realtà … taci, muori almeno tacendo, gli eroi odiano le parole, tranne quando si parla di loro”. Parole che accompagnano lo spettatore anche dopo gli applausi (meritati) finali.