Genova. “Sono sparite, sì, ma non sappiamo dove siano. Magari stanno andando su e giù nel Tirreno, o forse sono uscite dal Mediterraneo. Di certo, se dovessero tornare, difficilmente passeranno inosservate”. È passato quasi un mese da quando il gruppo di orche ha lasciato Genova e la Liguria dopo aver catturato su di sé l’attenzione di ricercatori e appassionati di mezzo mondo. Tra questi c’era anche la biologa marina Sabina Airoldi, responsabile delle ricerche nel Santuario dei cetacei per l’istituto Tethys, un’organizzazione senza scopo di lucro dedita alla conservazione dell’ambiente marino e alla ricerca scientifica sulle specie che lo abitano. Un evento eccezionale, quello andato in scena nel mare di Pra’, che tuttavia potrebbe ripetersi.
“In realtà per un gruppo di orche nomadi, non stanziali, non è strano entrare e uscire dal Mediterraneo – spiega Airoldi – però rimanere per 17 giorni attaccate a un porto è un elemento inusuale, legato molto probabilmente alla morte del piccolo“. Ma cosa ha prodotto un evento così triste proprio nel nostro mare? Ancora non esiste una spiegazione certa, soprattutto perché il cadavere non è mai stato recuperato. “La mamma aveva già perso un cucciolo nel 2017, si è accoppiata di nuovo e dopo 16 mesi ha partorito. Non sappiamo se la causa fosse una malattia del piccolo o un problema nella lattazione. Comunque questo le ha portate a fermarsi in un luogo che non era il loro habitat preferenziale”. Una sorta di elaborazione del lutto, insomma, tipica di questi mammiferi marini.
Il caso, in effetti, presenta analogie con un episodio simile osservato da alcuni ricercatori in Norvegia. Spiega ancora la ricercatrice di Tethys: “Abbiamo testimonianza di un gruppo di orche che si era fermato in un fiordo con acque molto basse. Una femmina aveva perso il piccolo, ma anche dopo averlo abbandonato il pod era rimasto lì per molto tempo. In seguito i ricercatori le hanno viste tornare periodicamente per mesi, soggiornavano in quella zona per due giorni e poi ripartivano”. Potrebbe dunque capitare la stessa cosa con Zena e gli altri membri del gruppo, avvistati l’ultima volta nello stretto di Messina? “Non escludiamo che possano tornare, ma non abbiamo neanche indicazioni che succederà. Non c’è un campione abbastanza ampio da studiare. Di certo questi comportamenti ci fanno pensare a comportamenti sociali molto avanzati”.
L’interesse scientifico per quanto accaduto a Genova è enorme. A breve i ricercatori dell’istituto Tethys raccoglieranno tutti i dati a disposizione raccolti con la collaborazione della Guardia Costiera: quelli dell’Acquario e dell’Università di Genova, quelli degli attivisti islandesi che per primi avevano identificato quel pod di orche e soprattutto quelli di Alessandro Verga, biologo marino di Whalewatch Genova che tutti i giorni ha osservato il loro comportamento. Lo studio che ne verrà fuori permetterà di capire meglio uno degli aspetti più affascinanti di questi animali: il loro “linguaggio“, cioè il ricchissimo insieme di suoni con cui comunicano tra loro.
“Con Nautascientific abbiamo posizionato un idrofono sul fondale che per diversi giorni ha registrato i suoni – continua Sabina Airoldi – e attraverso questi dati acustici potremo capire molte cose. Ad esempio, dove andavano notte? Presumibilmente a nutrirsi, ma analizzando le registrazioni lo sapremo con esattezza. Potremo studiare i richiami della madre, i cosiddetti stress call, emessi quando manteneva in superficie il corpo del piccolo senza vita, e li metteremo a confronto con quelli rilevati dagli islandesi per capire se ci sono differenze nelle emissioni acustiche. Speriamo di poter dare un contributo importante, perché questo aspetto delle orche è ancora piuttosto carente nella letteratura scientifica”.
A Genova le orche sono arrivate probabilmente perché erano attirate dal cibo, seguendo i branchi di tonni che sono una preda tipica degli esemplari “nomadi”. Poi la morte del cucciolo deve aver cambiato i piani. Sabina Airoldi ha seguito tutto da Barcellona, dove era in corso un grande meeting internazionale tra studiosi di cetacei: “Per me è stato emotivamente coinvolgente anche se studio i cetacei da 32 anni – racconta Airoldi -. In fondo un animale, uno dei più carismatici, è riuscito a suscitare l’interesse di persone che generalmente non sono così attente all’ambiente e al mare. Se fosse successo dieci anni fa non sarebbe stata la stessa cosa. Oggi c’è una nuova sensibilità, purtroppo un po’ tardiva: se ci giochiamo il mare ci giochiamo la nostra stessa vita”.
Foto Elia Biasissi – Menkab (Facebook)