Genova. Sono già tornate all’imboccatura del porto di Pra’-Voltri le quattro orche che da una settimana attirano l’attenzione di tutti i genovesi e di decine di esperti e ricercatori, in Italia e non solo. Stamattina erano andate solo a cercare cibo. Una storia che finora ha appassionato e commosso, soprattutto da quando è apparso chiaro che il cucciolo è privo di vita e che la madre continua a tenerlo a galla, in una sorta di danza funebre che avviene sempre nello stesso braccio di mare.
Molti lettori sui social hanno dato una lettura romantica della vicenda: dalle orche che avrebbero cercato invano l’aiuto dell’uomo (versione smentita chiaramente dall’istituto Tethys) fino al comprensibile strazio per quello che sembra l’estremo gesto d’amore di una madre. Senza nulla togliere ai sentimenti, esiste anche una spiegazione scientifica che aiuta a comprendere cosa spinga animali selvatici a compromettere la propria salute e la salvaguardia di un gruppo per un cucciolo morto.
Come scrivono gli attivisti dell’associazione Menkab, “esiste un ormone chiamato ossitocina che influenza lo sviluppo del comportamento materno e dei rapporti sociali. Nel cervello ha la funzione di neurotrasmettitore, ma viene rilasciato dall’ipofisi come ormone. L’ossitocina è conosciuto come l’ormone del legame (o dell’amore) e spesso è la motivazione che sta dietro anche ad adozioni di cuccioli non propri o addirittura di specie diverse”.
Questo il fenomeno biochimico, che dà luogo a un comportamento epimeletico perfettamente naturale nei cetacei, ma che ovviamente non esclude un altissimo livello di empatia. “Del resto i mammiferi marini hanno strutture cerebrali non dissimili dalle nostre. E sicuramente quello a cui stiamo assistendo in questi giorni è un caso estremo di empatia in un gruppo sociale”.
Le orche adesso si allontanano periodicamente, ma solo per cercare pesce più al largo. Del resto il maschio adulto che accompagna le tre femmine di questo pod ne mangia fino a 50 chili al giorno. Biologi e ricercatori sperano per il loro bene che riprendano il largo al più presto, anche perché l’imboccatura di un porto container in un punto cieco del Mediterraneo non è certo l’ambiente ideale per la sopravvivenza, per quanto un’ordinanza della Capitaneria abbia interdetto la navigazione nella zona dove nuotano.
Ma finché la madre non si “rassegnerà” alla perdita è probabile che restino lì. Il precedente più noto è quello del 2018, quando l’orca J35 restò col suo piccolo morto per 17 giorni nell’Oceano Pacifico, sperando che potesse dare segni di vita.