Genova. “Qui non siamo a Venezia. Ma anche rispetto a Genova abbiamo poco da dire, altrove non ha nemmeno piovuto. Non vedremo nulla, ne sono certo”. Il pessimismo di Diego Torre, tabaccaio, stride con la solerzia di chi a Fegino non ha perso un minuto e si è messo a ripulire tutto quando l’acqua arrivava ancora alle ginocchia. Lui compreso.
Scene che si ripetono in via Ferri, scampolo di bassa Valpolcevera assediato da mille servitù, dove tuttavia il clima è rimasto quello della campagna. Le alluvioni qui non sono una novità, ma nessuno si ricorda un metro e ottanta di fango nei negozi e nei portoni.
Dicono tutti la stessa cosa: la colpa del disastro è da imputare ai lavori di messa in sicurezza del rio Fegino che hanno sopraelevato il ponte di via Ferri di un paio di metri. “Il problema reale è che hanno voluto alzare la strada ma le case non le alza nessuno. Bisognava abbassare il livello del fiume”, reclama a gran voce Francesco Traverso, 77 anni, voce storica del quartiere e del comitato spontaneo che da tempo contesta quell’opera.
La dinamica, del resto, è chiara: l’esondazione è avvenuta a monte, complici le bassissime passerelle tappate dai detriti, e l’acqua è defluita tutta a valle fermandosi nella conca a nord di via Borzoli, oggi ancora più infossata di prima. Anche Traverso ne ha fatto le spese, dovendo dire addio a tutti gli oggetti stivati nel magazzino sotto la strada. “Qui il rio Fegino non è mai esondato, mai – assicura – perché il problema è sempre stato a monte. Arrivava un metro d’acqua magari, ma non due metri. Sono così dispiaciuto che non so più cosa dire”.
Il ‘day after’ porta con sé uno scenario di guerra: decine di uomini tra personale Amiu, volontari di protezione civile, agenti di polizia locale, vigili del fuoco e semplici cittadini hanno lavorato senza sosta per portare via il fango, smaltire i detriti, liberare i tombini, lavare le strade. Il segno della melma sui muri arriva grosso modo alle spalle e non lascia alcun dubbio su quanto accaduto. Non solo i negozi in via Ferri, ma anche le officine e le fabbriche lungo il rio Fegino hanno subito danni gravissimi.
“Nel 2014 erano venti centimetri in meno. Io non ho mai avuto nessun risarcimento, ma stavolta non ce la facciamo da soli. Le strutture si deteriorano, è sempre peggio”, racconta Enrico Ambrosi, nipote della storica Gina, ricordata in una targa come la mitica besagnina di Fegino. Frutta e verdura sono perduti così come gran parte delle attrezzature. “Io lavoro qui da quando avevo 15 anni, ci ho tirato su una famiglia, i miei tre figli, con questa attività ho permesso loro di andare al liceo, all’università, al conservatorio”. E ora? “Proveremo a rialzarci per l’ennesima volta. Ma sarà dura”.
Accanto al suo negozio c’è l’officina di una ditta che installa sistemi automatizzati. Un patrimonio di strumenti elettronici immerso nel fango. “Ci eravamo premuniti con paratie di un metro e sessanta – dice il titolare, Francesco Rufo – ma non è servito a nulla, l’acqua ha sfondato la serranda ed è passata da parte a parte. I lavori? Hanno peggiorato la situazione non perché siano stati fatti male, ma perché non sono stati completati. Bisognava prima evitare che esondasse il rio Fegino”. La conta dei danni è ancora approssimativa “ma parliamo di 70-80mila euro. Mi auguro che un contributo arrivi. Siamo in ginocchio, non abbiamo più niente”.
E poi Diego Torre, il tabaccaio, che da ieri mattina è arrivato qui da Rivarolo con la moglie e si è trovato di fronte la sorpresa peggiore. È lui il più tranchant: “Domani lo comunico ai Monopoli, chiudo finché non arriva qualcosa. Servirebbero almeno 50mila euro. Domani devo pagare i fornitori. Finché non arrivano quelli io non posso ripartire. E visto che non arriveranno, non so proprio come farò”.