Genova. Un testo scritto nel 1959, ma che è attualissimo. Del resto la natura umana non cambia poi molto, nonostante il trascorrere delle epoche. Il bello è che ognuno potrà trovarci la propria personale chiave di lettura e soprattutto uscirà dal Teatro con diverse domande in testa. “I costruttori di imperi – Lo Schmürz” di Boris Vian, è la nuova produzione del Teatro della Tosse in scena sino al 27 ottobre. La regia e la scenografia sono di Emanuele Conte.
La trama: Una famiglia scappa da qualcosa o qualcuno di cui si percepisce solo un rumore forte e disturbante. Ogni volta che si sente il suono, si spostano verso l’alto, utilizzando una scala, sigillando la porta da cui sono entrati. A ogni spostamento la famiglia perde qualcosa: sia gli oggetti materiali, sia i ricordi, ma non solo (non spoileriamo troppo). Ogni vota che si sale di piano, l’appartamento si fa più piccolo. L’unica a conservare la memoria è la figlia Zenobia (Graziano Sirressi), mentre il padre Leone (Enrico Campanati), la madre Anna (Susanna Gozzetti) e la governante Cruche (Pietro Fabbri) minimizzano, anzi si preoccupano per la salute della ragazza e tentano persino di fare in modo che venga promessa in sposa al figlio del vicino di casa (Sarah Pesca). C’è solo una “certezza”: lo Schmürz (Alessio Aronne), una presenza apparentemente percepita solo da Zenobia, ma che funge da capro espiatorio per il resto della famiglia. Picchiato, torturato, è la figura su cui si sfogano il padre e la madre e, su ordine di essi, anche Cruche, per poi tornare a fingere che vada tutto bene.
Perché andarlo a vedere
Una prova d’attore notevole quella proposta dal cast, in particolare da Enrico Campanati, che nel lungo monologo finale dà il meglio di sé. Tutti, tranne lo Schmürz (che non dice una parola per tutto lo spettacolo, ma subisce in silenzio), recitano con le maschere create da Ruben Esposito, anche per questo probabilmente riescono a dare maggiore incisività alle parole attraverso la postura, la gestualità, il tono della voce. In particolare Graziano Sirressi, nei panni di Zenobia, esprime tutte le proprie insicurezze attraverso le punte dei piedi rivolte verso l’interno, le ginocchia strette. Basta anche solo il gesto di sistemarsi la gonna quando gli viene chiesto di andare dal vicino per capire che in fondo, anche se Zenobia vorrebbe ribellarsi alla situazione, in fondo la accetta.
Spettacolari i costumi di Daniela De Blasio e realizzati dalla sartoria del Teatro. Padre e madre, oltre alle maschere, sono deformati, come stereotipati, nell’aspetto fisico: tutto petto Leone, tutta fianchi Anna.
Il testo gioca sul filo della commedia fino a un certo punto, poi si fa più drammatico, sino all’epilogo finale, che non sveliamo. Deliziosi gli intermezzi con Cruche e i suoi elenchi infiniti sia che si tratti di cibo, sia degli oggetti trasportati da un appartamento all’altro.
Punti deboli?
Non sono nel testo, né nella regia. Solo un avvertimento: lo spettatore occasionale potrebbe sentirsi disorientato dal fiume di parole e da alcune situazioni da teatro dell’assurdo. In questo caso occorre evitare di farsi troppe domande e lasciarsi guidare sino in fondo. Inevitabile chiedersi cosa rappresenti lo Schmürz e si empatizzerà per lui, almeno fino a un certo punto dello spettacolo (anche qui non riveliamo volutamente). Ci si chiederà il perché della fuga non appena si sente il rumore. Ci si farà tante domande, ma la risposta non arriverà forte e chiara. Le letture, come abbiamo detto all’inizio, sono molteplici.
Riportiamo solo una piccola parte del monologo finale, uno dei passaggi che riteniamo particolarmente efficaci e attuali: “Corriamo all’impazzata verso l’avvenire, e andiamo cosi in fretta che il presente ci sfugge, mentre la polvere sollevata dalla nostra corsa ci nasconde il passato… Chiudere gli occhi davanti all’evidenza è un sistema che non ha mai prodotto niente di buono… Un tempo restava almeno la speranza di una generazione futura che avrebbe lavato i panni sporchi dei propri vecchi… in un frullatore”.