Genova. Ognuno ha la propria storia legata al ponte Morandi. Come per le torri gemelle o per Notre Dame, per i mondiali del 1982 o per il capodanno del 2000. Ognuno – nel momento della condivisione – sente la necessità di raccontare il filo che unisce la “cosa” pubblica alla propria esistenza.
Per chi vi sta scrivendo, il Morandi, era un varco tra la periferia e la città, era la “A” di Parigi – come la chiamavamo da piccoli io e mio fratello – era la scaramanzia che imponeva di non parlare mentre ci passavi sotto: “se no ti interrogano”. Era un mostro immobile e tutto sommato buono da guardare con riverenza, le poche volte che per un ingorgo, una nevicata o chissà perché, ti trovavi a percorrere via Fillak a piedi e non su un autobus. Era sempre piena di foglie secche e cartacce. Mai stata un grande boulevard, via Walter Fillak.
Archiviata l’inevitabile ed esorcizzante condivisione personale, parliamo di lui. Tra poco le due pile così riconoscibili della struttura progettata da Riccardo Morandi – la terza pila (la numero 9) è crollata il 14 agosto 2018 – non ci saranno più. Fa effetto pensare che un qualcosa di così discusso, amato e odiato, ma soprattutto utilizzato scompaia. Eppure il punto è proprio questo: non ci dovrebbe fare effetto che un ponte costruito negli anni Sessanta e considerato fragile persino dal suo stesso padre, Morandi, venga ricostruito.
Se fossimo ancora una nazione in boom economico, con un senso del futuro e la capacità di slancio, forse avremmo abbattuto il Morandi prima che venisse giù da solo. E avremmo costruito un nuovo viadotto più ambizioso e simbolico della nave di Renzo Piano: minimalista, efficiente, economico, elegante ok, ma non proprio qualcosa che ti lascia a bocca aperta.
Riccardo Morandi invece, insieme a Pier Luigi Nervi tra gli ingegneri-architetti più importanti del Novecento italiano, osò fare della sostanza, forma. Osò sperimentare nuovi materiali (già negli anni Trenta fra i primi a usare il cemento armato e poi il cemento armato precompresso). Un pioniere, insomma.
Oggi non ne abbiamo. E forse è questo che ci mancherà, più che il ponte in sé, troppo intriso di lutto per pensare di poterlo davvero restaurare e utilizzare (anche se per un numero consistente di persone anche esperte quella sarebbe stata la soluzione migliore). Quello che ci mancherà sarà il senso di “visione”, l’audacia, che il ponte Morandi rappresentava. L’orgoglio di un Paese che ci credeva a tal punto da esagerare, come forse si è fatto nella progettazione del viadotto Polcevera. Ma che ci credeva.

Tra poco le pile 10 e 11 non ci saranno più. Abbiamo raccontato in questi mesi come avverrà, quali sono i rischi, quali sono le tecniche, quali sono le preoccupazioni e le speranze. Alle 9, per qualche secondo, tratterremo il fiato. Come voi. E poi torneremo a raccontare.