La storia

Una genovese alla Marathon des Sables: per Francesca Billi oltre 250 chilometri nel deserto

L'atleta di ultratrail corona il suo sogno. Il momento più bello? "La lunga notte nel deserto"

Una genovese alla marathon des sables

Genova. Sette giorni, sei tappe, oltre 250 km di corsa nel deserto. E’ la Marathon des Sables, un’esperienza “ultra” non solo per i chilometri da percorrere in autosufficienza alimentare, con uno zaino pesante sulle spalle. Si tratta infatti di un viaggio unico nel suo genere fatto di vento e sabbia, di tramonti e albe in paesaggi lunari, con le luci dell’Africa a illuminare il lungo e faticoso cammino attraverso le dune. Quest’anno a correre la 34° edizione di una delle gare di trail running più affascinanti al mondo c’era anche una genovese. Si chiama Francesca Billi, classe 1975, due figli, un marito, un lavoro e un grande sogno: il deserto. Genova24 l’ha intervistata appena conclusa l’impresa, mentre ancora si trova in Marocco.

Una genovese alla marathon des sables

Francesca, come si arriva a preparare una gara del genere?
“Ho iniziato a fare trail nel 2013 su suggerimento di un amico. Ho fatto una gara da 34 chilometri ed è stato amore al primo sentiero. Poi ho bruciato le tappe, sono arrivata a correre, la CCC,Courmayeur-Champex-Chamonix, da 100 km. Avevo un ‘po di ingordigia di km, con risultati altalenanti. Alla Rensen di 60 chilometri ricordo che l’ultima salita, pensando alla mia famiglia sul divano, mi sono detta chi me l’ha fatto fare, ma gestire le crisi fa parte del gioco. Non guardo tanto la performance e a volte arrivo tra gli ultimi ma da due anni mi sono affidata a un coach, Davide Grazielli, unico italiano a fare la Western States in meno di venti ore”.

Cosa è cambiato?
“Con lui ho fatto il salto perché mi ha insegnato che non è il numero di chilometri a far sì che una gara sia un successo. In passato ho fatto anche due Tor de Géants, entrambi non finiti, uno a causa del meteo e uno per questioni famigliari, ho dovuto abbandonarlo dopo 200 chilometri. Quell’esperienza è finora rimasta incompleta”.

L’anno scorso è stato un anno pieno di gare riuscite ma il tuo sogno era il deserto
“Sì, ho sempre sognato il deserto e una gara a tappe. Mi sono iscritta senza dire niente a nessuno e pagando a rate perché la gara è molto costosa vista l’organizzazione meticolosa, dagli elicotteri che di giorno volano costantemente sulle nostre teste ai campi che vengono spostati via via. Poi ho avuto la fortuna di conoscere Franco Zomer, presidente e fondatore dell’Asd Maratonabili, che mi ha dato dritte preziose”.

Una delle difficoltà principali della gara è l’autosufficienza alimentare che comporta uno zaino pesantissimo
“Sì, lo zaino alla pesata della partenza deve essere minimo sei chili e mezzo e massimo quattordici. Il mio era nove chili, sono stata anche brava perché devi comunque dimostrare di portare almeno 2 mila calorie al giorno, ma era come essere inchiodata a terra: dopo una settimana mi sono guardata allo specchio e avevo quasi dei buchi sulle spalle dove avevo lo zaino”.

Prima della gara ti eri anche infortunata, non hai mai pensato di non farcela?
“Da dicembre sono stata afflitta da una fastidiosa pubalgia e di fatto ho praticamente solo camminato fino alla marathon des sales, ma grazie al mio coach ero tranquilla, avevo fatto i conti e in pratica era possibile arrivare in fondo nei tempi anche solo camminando. Ho fatto tante camminate lunghe in quei tre mesi, e sapevo che testa e cuore c’erano, nonostante poi si possano presentare miliardi di incognite. E poi una delle mie più care amiche è malata di cancro, un’altra ha la sclerosi multipla, ho promesso di arrivare in fondo anche per loro”.

Una giornata di corsa e poi il bivacco nel deserto, un’esperienza unica…
“Ogni giorno finisci la tappa, ti medichi i piedi soprattutto e la sera hai una bottiglia a disposizione per lavarti. Poi prepari la cena intorno alle 18.30 perché poi arrivava il buio, e ti mettevi a dormire in tenda. L’escursione termica è importante anche 15.20 gradi, il cellulare lo usavo solo per le foto. Nelle varie tappe potevamo leggere le mail di sostegno che ci venivano mandate. E potevi fare una telefonata con il satellitare. L’ho fatta solo una volta per chiamare mio marito e sapere se i miei figli stavano bene, visto che avevo detto loro di non scrivermi e in effetti sono stati gli unici a non averlo fatto. Poi la mattina, se la notte c’era stato vento, ti svegli con la sabbia in bocca e riparti”.

Sei tappe in sette giorni, di cui una di 80 chilometri, non sono uno scherzo
“La tappa lunga era quella che sognavo, la notte del deserto: sono stata fortunata perché il tempo era buono. Ho avuto una crisi di sonno intorno alle 22.30, ho mangiucchiato qualcosa, mi sono lavata la faccia e sono ripartita. In caso contrario avrei fatto un microsonno in tappa, ma la notte sotto il cielo stellato dell’Africa, è stata indimenticabile”.

Che cos’ha di speciale la Marathon des Sables?
“E’ soprattutto un viaggio bellissimo. Mentre in certe gare come il circuito del monte Bianco ci sono cancelli stretti, qui i cancelli, vale a dire i tempi con cui concludere una tappa, sono larghi. Anche quest’anno, gli abbandoni sono stati pochi, un po’ perché visto il costo la gente vuole finire quel che ha iniziato, un po’ perché il concetto di chi organizza questa gare è che gli atleti possano, nonostante la fatica, soprattutto divertirsi”.

Dopo un’esperienza del genere come si torna alla vita normale? E, soprattutto, cosa hai in mente per il futuro?
“Beh, devo lavorare e tornare a fatturare visto che sono una libera professionista. Ma ora qui in Marocco mi raggiungerà mia figlia per fare qualche giorno di vacanza insieme noi due. Per il futuro? Qualche idea in testa ce l’ho, vedremo”.

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