La recensione

Tango del calcio di rigore al Teatro Modena, tre motivi per andare a vederloevento

Lo spettacolo ha debuttato in prima nazionale e resterà in scena sino al 10 marzo

Genova. Quando uno spettacolo “ti segue” sino a casa e riesce a farti pensare anche nei giorni successivi ai contenuti leggeri o tragici che ha raccontato, ha fatto centro. È quello che è successo a chi scrive dopo il debutto di “Tango del calcio di rigore“, nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova, scritto e diretto da Giorgio Gallione e in scena al Teatro Modena di Sampierdarena sino al 10 marzo.

Sul palco Neri Marcorè, Ugo Dighero, Rosanna Naddeo, con i giovani Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto, che si muovono con sicurezza nell’apprezzabile scenografia di Guido Fiorato. In breve la trama: un uomo ricorda quando, bambino assistette al mondiale del 1978, quello che si giocò nell’Argentina del dittatore Jorge Videla. Ripercorrendo il passato tra episodi realmente accaduti e qualche leggenda, il bambino di allora giunge alla consapevolezza di quanto il calcio divenne strumento di propaganda politica.

Perché andarlo a vedere?

Primo motivo – Il messaggio “civile”

A fine spettacolo si ha come un senso di repulsione per il fatto che la Fifa abbia acconsentito a far giocare quel mondiale in un Paese dove solo durante le partite avveniva una pausa per le torture e gli omicidi degli oppositori politici al regime di Videla. Subito dopo ricominciavano i tristemente famosi “voli della morte”, per gettare i cadaveri nell’Oceano. Chi non ricorda quel mondiale o chi non era ancora nato all’epoca, avrà modo di dolersi per come sia andato a finire: una farsa sportiva a supporto della dittatura. Vi consigliamo un excursus su Youtube per ripercorrere quei fatti: la partita tra Argentina e Perù terminata 6-0 per consentire la qualificazione dell’albiceleste alla finale (con il Perù che ricevette come premio milioni di tonnellate di grano e tanti, tanti soldi), gli arbitraggi scandalosi, anche nella finale contro l’Olanda, vinta dagli argentini per 3-1, oltre a diversi episodi, accaduti sempre in Sudamerica, attraverso il racconto delle vicende di Alvaro Ortega, l’arbitro colombiano che commise “l’errore” di annullare un goal all’Indipendente Medellin, la squadra dei trafficanti di cocaina, o di Francisco Valdes, capitano del Cile, costretto a segnare a porta vuota dai militari di Pinochet perché l’unione Sovietica boicottò quella partita di qualificazione ai mondiali in Germania Ovest del 1974. In questo caso Valdes si libera di quel peso con una lettera sulla tomba di Pablo Neruda, lui, incapace di ribellarsi, si denuda di fronte a colui il cui funerale divenne uno dei primissimi momenti di opposizione al regime di Pinochet; si rievoca anche la “guerra del football”, combattuta nel 1969 tra Salvador e Honduras, ma guidata dagli Usa: qualche migliaio di morti tra i civili per soli 5 giorni di conflitto.

Secondo motivo – Le canzoni

Ogni episodio termina con una canzone: i brani sono di Julio Sosa e Astor Piazzolla e sono interpretati in modo convincente dal cast. Non siamo certo noi a scoprire le doti vocali di Neri Marcorè, Ugo Dighero e Rosanna Naddeo. Si fa il pieno di emozioni quando Naddeo canta “Gracias à la vida” nel finale della parte dedicata ai desaparecidos, un’emozione anche visiva con i volti di alcuni di loro calati dall’alto e incorniciati come nelle foto di famiglia, famiglia che non li ha più riabbracciati. L’attrice interpreta una delle madri di plaza de mayo che racconta come cominciò quel rito di protesta di quelle donne alla ricerca dei loro figli, ma anche le torture in voga all’epoca. Il momento più divertente invece è il gaucho appassionato di Ugo Dighero, un omaggio a Renato Rascel.

Terzo motivo – Le leggende alternate alla realtà

Tornando a casa è inevitabile pensare se alcuni episodi raccontati corrispondano a leggenda o realtà. Gallione ha attinto dalle storie raccontate da Osvaldo Soriano, giornalista e scrittore argentino, come quella del calcio di rigore più lungo del mondo, battuto a distanza di una settimana. Impossibile non affezionarsi a “El Gato Diaz”, il portiere dell’Estrella Polar nel match contro il Cipolletti e alla sua passione per la rubia Ferreira. I più attenti avranno colto anche una delle storie contenute in Bar Sport di Stefano Benni: “Viva Piva”, la storia del calciatore dal tiro portentoso.

Il punto debole

L’alto numero di repliche consentirà agli attori di rodarsi al meglio. Le incertezze della prima sono ampiamente superabili. Quello che abbiamo notato è che il susseguirsi degli episodi mette davvero tanta carne al fuoco e le parti più riuscite sono state quelle recitate, mentre l’incalzante racconto a cinque voci può risultare più come una “lezione”, quindi meno coinvolgente.

 

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