Genova. “Marco è finita, qui ci legano tutti. Perché?”. E’ in questi termini che Cristian Beron si rivolge a Marco N’Diaye mentre chiama i soccorsi per l’amico ferito nella colluttazione. A pochi metri da loro c’è il corpo senza vita di Davide Di Maria, il giovane pusher accoltellato a morte il pomeriggio del 17 settembre 2016. Domani Cristian Beròn spiegherà alla corte il senso di quella frase e la sua versione dei fatti su quel pomeriggio nell’appartamento di N’Diaye a Molassana.
Il 30enne di origini colombiane, pur essendo anche lui indagato per rissa aggravata dalla morte, è considerato quasi unanimemente un teste chiave per far luce su un omicidio che vede un solo imputato formale (Guido Morso, difeso da Riccardo Lamonaca) ma i cui contorni non sono mai stati chiariti con un’arma mai trovata e nessuno degli altri quattro presenti nella stanza che è mai stato in grado di accusare esplicitamente un altro.
Oggi in aula sono stati interrogati a lungo proprio il 35 enne Guido Morso che si è detto grande amico di Di Maria. Morso ha ammesso di avere venduto a Di Maria 3 kg di hashish per un debito di circa 6 mila euro. Ma quei soldi non sarebbero stati un problema: “Ci conoscevano da 15 anni e magari aveva avuto un problema. Mica mi metto a litigare con un amico per 6 mila euro”.
Morso racconta che quel pomeriggio N’Diaye aveva insistito molto perché lui andasse a casa sua e lì aveva trovato ‘Davidino’ legato mani e piedi con le fascette e a faccia in giù con D’Ndiaye che lo picchiava a calci e pugni.
Secondo la versione del giovane Morso appena entrati N’Diaye che era armato avrebbe aggredito suo padre Enzo, mentre Davidino legato a un certo punto si sarebbe riuscito a liberare andando contro Marco a sua volta. Lui, rimasto in fondo all’ingresso, si sarebbe visto una pistola rotolare davanti ai piedi e l’avrebbe presa sparando d’impeto a terra. Poi Davidino sarebbe uscito di casa e Beron che lo aveva seguito sarebbe tornato dentro dopo pochi secondi dicendo “Davide è morto”. I due Morso a quel punto sarebbero scappati. “Ero convinto che il colpo fosse rimbalzato e di averlo ucciso io, ero sconvolto perché era uun mio amico. Per questo poi ho deciso di costituirmi”.
Diametralmente opposta la versione di N’Diaye. Le fascette? “Erano un giovo che facevano Cristian e Davide per imitare i metodi della polizia americana, ma quando sono arrivati i Morso Davide era in piedi anche se una fascetta gli era rimasta al polso e una alla caviglia”. L’arma? “Non era la mia neppure la seconda quella cromata. E’ Vincenzo Morso che è entrato armato e io mi sono scagliato su di lui perché temevo che sparasse”. Il fatto che le cartucce compatibili con la pistola siano state trovate in un astuccio con le sue iniziali e nel suo giardino? “Evidentemente ce le ha messe qualcuno, non sono mie” ribadisce N’Diaye con l’aria di uno molto sicuro di sé nonostante il fatto che sia in carcere per aver minacciato con una pistola cromata e picchiato dopo averlo rinchiuso in un garage un giovane di Marassi che si era rifiutato di spacciare per lui. Perché si era fatto comprare le fascette proprio quella mattina? “Perché potevano servirmi per l’orto” ha detto e al giudice che gli ha ricordato che aveva la febbre: “Ciò non significa che non potessi uscire di casa e occuparmi dell’orto”. All’avvocato Lamonaca che gli ha fatto notare come in prima battuta avesse detto alla squadra mobile che le fascette le aveva comprate parecchio tempo prima Marco ha risposto: “Ero appena uscito dall’ospedale, quindi ero stordito e confuso per cui quella dichiarazione non ha alcun valore”.
E’ un processo complicato che potrebbe anche non portare a nessuna condanna per l’omicidio del 27 enne perché per condannare Guido Morso servono prove che finora non sembrano essere emerse chiaramente. Si vedrà: il coltello nessuno l’ha visto ma è l’arma che ha colpito a morte Di Maria. La tesi della procura è che i tre volessero tendere un agguato a Guido Morso non si sa se per non restituirgli il debito o per punirlo per aver dato del “mangiabanane” a Marco che avrebbe organizzato il tutto trascinando gli amici. Poi l’omicidio sarebbe stato probabilmente un delitto d’impeto nato nell’ambito della colluttazione.
Domani dopo la conclusione dell’interrogatorio di N’Diaye con le domande del suo avvocato Alessandro Vaccaro appunto sarà sentito Cristian Beron, mentre Vincenzo Morso ha annunciato che non si farà interrogare ma rilascerà spontanee dichiarazioni. E in base alle dichiarazioni che tutti si attendono da Beron il sostituto procuratore Alberto Landolfi ha già annunciato che chiederà il confronto: certamente tra N’Diaye e Beron e probabilmente anche tra il colombiano e Guido Morso.