L'intervista

Nella moschea di via Castelli raccolta firme contro il terrorismo. L’imam Naji: “Nell’inchiesta e sui giornali tante falsità”

L'imam indagato si circonda dei suoi 'fratelli' e replica a tutte le accuse contenute nell'indagine della Procura

Genova. Si difende Mohamed Naji, uno degli imam indagati per terrorismo della procura di Genova e difende le sue moschee e i musulmani “che sono molto arrabbiati – dice – perché noi il terrorismo lo abbiamo sempre combattuto”. Naji ha convocato una sorta di conferenza stampa fuori dalla moschea di via Castelli a Sampierdarena. Dopo la preghiera con lui si avvicinano in tanti, per raccontarci di essere “fermamente contro il terrorismo per il nostro Islam ancora prima che per l’Italia o per la paura della polizia”. “Combattiamo il terrorismo “con il nostro sapere” dicono dando ai giornalisti un fitto opuscolo con i versetti del Corano e i verdetti dei salafiti contro il terrorismo e la violenza e mostrando alle telecamere le decine di firme che stanno raccogliendo fra i fedeli.

Naji, poi, ribatte una ad una alle accuse contenute nei rapporti della Digos di Genova. “Hanno detto che questo – spiega riferendosi alla moschea di via Castelli – è un luogo che volevamo tenere segreto ed è blindato ma è falso. Dopo gli attentati di Parigi mentre questo posto era ancora in costruzione, la Digos venne da me in vico Amandorla e gli ho fatto vedere i documenti di questo posto”.

Poi qui sono venuti anche i carabinieri a cui ho mostrato la nuova moschea”. Le vedette? “Ma quali vedette, io dico solo ai miei fratelli di non stare in strada per non disturbare il vicinato per questo vanno a parlare lì al primo piano”. I contatti con i libici? “Io mi occupo della compravendita di automobili, e sono in contatto con centinaia di persone, anche libici. Li ho chiamati, certo, come chiamo molti altri, ma non ho certo parlato di terrorismo o di documenti falsi, che lo provino!” si arrabbia Naji sostenuto dai suoi ‘fratelli’. Ancora, rispetto a Mahmoud Srad, il giovane siriano arrestato prima che partisse per la Siria, come sostengono gli investigatori: “E’ venuto qui qualche volta, l’ultima volta poco più di un mese fa insieme al fratello. E’ una ragazzo normale, se avessi mai sospettato le sue intenzioni lo avrei cacciato, ma sapete cosa vi dico? Ho parlato con alcuni amici arabi a Varese e loro mi dicono che è un tipo a posto, solo voleva andare a trovare la moglie”.

Dentro la moschea c’è anche la moglie di Naji, un’italiana convertitasi all’Islam vent’anni fa: “Ci dicono che siamo salafiti come fosse una brutta parola, ma salafiti viene da Selef che significa ‘pii predecessori’, il nostro è l’unico Islam che non si è allontanato dalle parole del Profeta, forse per questo diamo fastidio a molti” dice e mostra un grande quaderno di appunti dove si parla dell’importanza di combattere il terrorismo: “Noi li vogliamo combattere questi disgraziati, sono cani dell’inferno i terroristi. Ma le forze dell’ordine devono prima capire chi devono combattere, altrimenti come fanno? Rischiano di prendersela con chi non c’entra”.

Sono stati proprio Naji e la moglie a cercare e ad affittare dopo il centro di culto di vico Amandorla, uno spazio in via Castelli: “Tutti parlano di Breshta, dell’albanese, ma questo centro di culto l’ho affittato io. Fra l’altro mio marito con Breshta non parla da un po’ per una differenza di vedute. Ma evidentemente ad altri, a quelli che dicono di rappresentare l’Islam moderno, noi diamo fastidio perché in molti dalle altre moschee ormai vengono a pregare qui”.

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