Liguria. Il certificato penale antipedofilia non serve per i volontari di parrocchie, società sportive e associazioni. Lo ha chiarito il Ministero della Giustizia, con una nota emessa dopo la convulsa giornata di ieri.
Una norma datata 4 marzo, ma emersa solo negli ultimissimi giorni, impone al “datore di lavoro” di essere in possesso del certificato penale dei propri subordinati per accertare l’assenza nel loro passato di reati legati alla pedofilia. A gettare nel panico l’universo delle onlus e delle realtà del volontariato è stato un passaggio della norma, che recita come ad essere obbligato sia il “soggetto che intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori”.
Attività volontarie organizzate: apriti cielo. Una scuola di danza, il catechismo, un asilo nido o i gruppi scout: l’elenco delle realtà interessate dalla norma sembrava infinito. Sembrava, perché la chiave, secondo il ministero, sta proprio nella dicitura “datore di lavoro” usata nel passaggio che parla delle sanzioni, e che implica chiaramente l’esistenza di un contratto tra le parti.
“L’obbligo di tale adempimento – chiarisce il Ministero – sorge soltanto ove il soggetto che intenda avvalersi dell’opera di terzi – soggetto che può anche essere individuato in un ente o in un’associazione che svolga attività di volontariato, seppure in forma organizzata e non occasionale e sporadica – si appresti alla stipula di un contratto di lavoro; l’obbligo non sorge, invece, ove si avvalga di forme di collaborazione che non si strutturino all’interno di un definito rapporto di lavoro”.
In soldoni, l’obbligo di richiedere il certificato permane per tutte le realtà, ma soltanto per quanto riguarda i lavoratori regolarmente inquadrati: i volontari, evidentemente, “esplicano un’attività che, all’evidenza, resta estranea ai confini del rapporto di lavoro”.
Due le certezze: va richiesto per chi è dipendente, non va richiesto per chi non è pagato. E chi è in mezzo? Non è chiaro se il “definito rapporto di lavoro” riguardi o meno le partite iva, i collaboratori a chiamata, i collaboratori tecnici delle realtà sportive, insomma tutti coloro che percepiscono un compenso con un inquadramento legale più labile di quello del dipendente ma comunque esistente.
Se il numero di persone coinvolte cala drasticamente, restano le perplessità sui modi di attuazione (va richiesto dal datore di lavoro in barba alla privacy), sui tempi (da dopodomani) e sulle relative sanzioni (dai 10 ai 15mila euro). Anche su questo il Ministero è intervenuto per spiegare che, nella prima fase, basterà “una dichiarazione del lavoratore sostitutiva dell’atto di notorietà” che attesti l’assenza di condanne legate alla pedofilia per evitare la supermulta.
E poi l’ultima perplessità: la giurisprudenza insegna che i pedofili si annidano di solito proprio tra i volontari, piuttosto che tra i professionisti e i dipendenti. E allora la nuova norma a cosa serve?